Varsavia mobilita 40.000 uomini. NATO in pre-allarme. Mosca sorvola la sovranità. Kiev colpisce al cuore. L’Est Europa torna ad assomigliare pericolosamente a una polveriera ottocentesca. E questa volta, l’equilibrio del terrore passa dai droni. Nelle ultime ore, l’Europa orientale ha visto riaccendersi i segnali di un confronto che da mesi si muove in bilico tra guerra convenzionale e pressione ibrida.
* di Cristina Di Silvio
NATO, ok all’articolo 4
Lo sconfinamento di droni russi nello spazio aereo polacco non è soltanto un incidente: è un affronto tattico che si colloca nel quadro di una strategia più ampia, fatta di zone grigie, provocazioni calibrate, e operazioni destinate a testare i limiti della deterrenza occidentale.
La reazione di Varsavia è stata immediata, decisa, inequivocabile: 40.000 soldati mobilitati lungo il confine con Russia e Bielorussia, in quello che è di fatto il più grande dispiegamento militare polacco dalla fine della Guerra Fredda. Ma questa non è più la Guerra Fredda. È qualcosa di peggio: una guerra tiepida, permanente, a intensità variabile, che vive di assenza di regole e sovraccarico di ambiguità.

Mentre il governo polacco chiede una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’ONU — che si preannuncia sterile, visti i meccanismi di veto a disposizione della Russia — la NATO rafforza il proprio fianco orientale, consapevole che l’incidente polacco può rappresentare la faglia di rottura del fragile sistema di sicurezza europeo.
A gettare acqua sul fuoco, almeno formalmente, è arrivata in serata la voce di Donald Trump. L’ex presidente, in un commento che ha il sapore di un ricalcolo elettorale più che di un’analisi strategica, definisce i droni russi in Polonia come “un possibile errore”.
Una frase studiata per smorzare i toni, certo, ma anche sintomatica della postura americana che, da mesi, oscilla tra coinvolgimento e distacco, tra minaccia e disimpegno.
Ma se tutto è “errore”, allora nulla è responsabilità.
E se nulla è responsabilità, tutto è lecito.
Nel frattempo, la guerra continua a mietere vittime.
A Sumy, nell’Ucraina nord-orientale, droni e missili russi hanno colpito una zona industriale e residenziale causando almeno tre morti e cinque feriti. È l’ennesimo episodio di una campagna aerea che, a dispetto della narrativa russa sulla “precisione chirurgica”, continua a colpire infrastrutture civili e aree non militari.
Secondo Kyiv Independent, solo nelle ultime 24 ore i raid russi avrebbero provocato almeno sei morti e 26 feriti.
Dall’altra parte, l’Aeronautica militare ucraina dichiara di aver abbattuto 33 dei 40 droni lanciati dalla Russia, mentre sei sono riusciti a colpire tre diverse località. La risposta ucraina non si è fatta attendere. Nella notte, Mosca ha riferito di aver abbattuto 221 droni nemici: un numero impressionante, forse gonfiato dalla propaganda, ma comunque indicativo di un cambiamento di passo da parte di Kiev.
L’Ucraina non si limita più a difendere il proprio territorio: porta la guerra all’interno del perimetro russo, minando la profondità strategica del nemico e restituendo almeno in parte il senso di vulnerabilità che la Russia ha inflitto alle città ucraine. Questo conflitto è entrato in una nuova fase: post-industriale, asimmetrica, liquida. Non è più fatto di divisioni corazzate ma di sciami di droni, guerre elettroniche, sabotaggi, disinformazione, attacchi cyber. Non esiste più un fronte lineare, ma una costellazione di micro-conflitti simultanei, spesso invisibili, sempre destabilizzanti.
In questo scenario, la Polonia assume un ruolo centrale, non solo per la sua posizione geografica ma per la sua rilevanza storica e simbolica. Varsavia è l’anello più solido — e più esposto — della catena orientale dell’Alleanza Atlantica.
Per la Russia, esercitare pressione su questo fronte significa testare la tenuta dell’Articolo 5, spingere verso un’escalation calibrata ma pericolosamente vicina alla soglia del conflitto aperto. Non è un attacco frontale, ma è un assedio strisciante. E la Polonia lo ha capito prima degli altri. Il problema, però, non è solo militare. È anche — e soprattutto — politico e giuridico. La richiesta polacca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU si scontra con l’architettura ormai obsoleta del diritto internazionale. La presenza della Russia tra i membri permanenti del Consiglio, dotati di potere di veto, paralizza ogni possibilità di risoluzione efficace.
Si conferma così una tragica verità: l’ONU è tecnicamente impossibilitata a gestire le minacce che provengono proprio da uno dei suoi garanti. È un cortocircuito sistemico che lascia spazio solo all’azione regionale, alle coalizioni temporanee, alla diplomazia bilaterale — strumenti insufficienti, però, per affrontare una crisi di portata globale.
Nel frattempo, la NATO si muove con passo felpato. Ogni dichiarazione è pesata al millimetro, ogni esercitazione calibrata per non essere letta come provocazione. Ma il rischio è chiaro: troppa cautela può essere letta come debolezza. E la debolezza, in un sistema basato sulla deterrenza, è una forma di invito. In conclusione, non siamo davanti a un incidente isolato.
Siamo davanti a una strategia coerente e prolungata di destabilizzazione. Una strategia che usa il margine, l’ambiguità, l’incertezza per avanzare un centimetro alla volta, mettendo alla prova la coesione dell’Occidente, la resilienza delle istituzioni europee e la prontezza delle democrazie liberali. La Polonia ha scelto di non aspettare. Di non fingere che si tratti solo di errori di navigazione. E forse è proprio in questa scelta — nella rapidità della risposta, nella durezza del messaggio, nella determinazione dell’azione — che si può ancora intravedere un barlume di contenimento. Perché la storia insegna che le guerre si accendono dove la deterrenza fallisce. E la deterrenza fallisce quando il nemico inizia a credere che non reagiremo.
Chiudere gli occhi di fronte all’ambiguità strategica non è neutralità. È complicità nella costruzione dell’incidente. E questa volta, l’incidente potrebbe non essere contenibile.