La mappa del potere marittimo: Cina, USA e la corsa ai fondali ricchi di terre rare

WASHINGTON attacca, PECHINO, risponde. A lungo relegati ai margini del confronto commerciale, almeno diretto, le due superpotenze oggi guardano verso i porti come alla nuova frontiera dello scontro sistemico tra USA e Cina. All’orizzonte si profila un conflitto che travalica le dispute tariffarie per intaccare le fondamenta dell’ordine economico globale: il controllo delle infrastrutture logistiche, il dominio sulle catene del valore, la tenuta di modelli economici ormai inconciliabili.

USA – Cina, non solo dazi amari

la mappa del potere marittimo cina usa e la corsa ai fondali ricchi di terre rare 1 Difesa Magazine

Le misure di ritorsione adottate da Pechino, in risposta alla decisione americana di colpire fiscalmente le navi cinesi, rappresentano solo l’ultimo anello di una catena tesa fino allo spasimo.

Il perno legale? La Sezione 301 del Trade Act del 1974, rispolverata da Washington non più per contrastare dumping o violazioni della proprietà intellettuale, ma per arginare la penetrazione strategica cinese nei porti statunitensi. Con un tratto di penna, l’amministrazione Trump ha introdotto un regime fiscale punitivo per tutte le imbarcazioni di proprietà o gestione cinese, evocando ragioni di “sicurezza nazionale”.

La risposta di Pechino è stata tanto puntuale quanto glaciale: misure simmetriche, quasi speculari. Ma il parallelismo è solo apparente. Gli Stati Uniti rappresentano appena lo 0,1% della cantieristica mondiale, mentre la Cina detiene oltre il 50%, con capacità distribuite in hub industriali come Shanghai, Dalian, Ningbo-Zhoushan e Guangzhou, oggi tra i più attivi al mondo per traffico merci.

Il colpo inferto da Washington mira, dunque, al cuore pulsante dell’industria navale del Dragone. Secondo stime di HSBC e Citigroup, entro il 2026 la sola Cosco potrebbe subire perdite superiori ai 2 miliardi di dollari, mentre per OOCL l’impatto previsto sfiora i 654 milioni. In un settore già sotto pressione per margini ridotti e sovraccapacità, la misura rischia di amplificare turbolenze sistemiche su scala globale.

La portualità globale è divenuta terreno di scontro strategico. China Ocean Shipping Company (Cosco) e China Merchants Port Holdings controllano o partecipano in oltre 90 terminal portuali distribuiti in più di 50 Paesi — inclusi scali chiave in Europa (Pireo, Valencia, Rotterdam), Asia, Africa e Sud America. L’espansione rientra nel disegno più ampio della Belt and Road Initiative (BRI), il progetto infrastrutturale lanciato da Xi Jinping nel 2013 per intrecciare la Cina alle reti logistiche e commerciali globali. Negli Stati Uniti, la presenza diretta cinese nei porti resta limitata, ma non irrilevante. L’indagine avviata sotto la Sezione 301 ha evidenziato un “dominio irragionevole” anche nel settore marittimo indiretto, tramite joint venture, servizi logistici e tecnologie di automazione portuale — in particolare nel porto di Long Beach, da cui Cosco si è ritirata sotto pressioni politiche.Lo scontro, però, non si gioca solo in superficie.

Terre rare, la nuova mappa della geopolitica

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Al centro della contesa c’è una risorsa meno visibile ma cruciale: le terre rare. Diciassette elementi chimici indispensabili per la produzione di microchip, pannelli solari, turbine eoliche, laser, missili, smartphone e auto elettriche.

La Cina controlla circa il 60% dell’estrazione globale, ma ben l’85% della raffinazione, posizionandosi come attore monopolista nella catena di approvvigionamento. Le miniere più produttive si trovano nelle province di Inner Mongolia (Baotou) e Sichuan, mentre il controllo commerciale è nelle mani di conglomerati statali come China Northern Rare Earth Group e China Minmetals. Washington ha individuato questa dipendenza come vulnerabilità strategica. Dal 2019, il Pentagono ha avviato un piano di diversificazione, puntando su fornitori alternativi (Australia, Canada, Vietnam) e rilanciando la miniera di Mountain Pass in California — una delle poche fonti extra-asiatiche.

La recente stretta cinese sull’export di gallio e germanio — metalli critici per semiconduttori e industria della difesa — ha riacceso le tensioni. Pechino ha giustificato la misura come risposta agli “abusi tecnologici” occidentali. Ma per Washington è un segnale di debolezza. “Stanno cercando di esportare la loro recessione”, ha accusato il segretario al Tesoro Scott Bessent, evocando un modello “leninista suicida”.

Lo scontro si allarga al fronte industriale. Il colosso sudcoreano Hanwha Ocean è stato colpito da sanzioni cinesi per aver collaborato con le autorità americane nell’ambito dell’indagine ex Sezione 301. Cinque sue filiali statunitensi sono finite nella lista nera. I mercati hanno reagito immediatamente: le azioni Hanwha hanno perso fino all’8% sulla borsa di Seoul. Il messaggio è chiaro: la neutralità non paga più. Nel frattempo, anche l’Europa scopre la propria esposizione. Il governo olandese ha nazionalizzato Nexperia, produttrice di chip maturi, finora controllata dal conglomerato cinese Wingtech.

La decisione, giustificata con esigenze di “autonomia strategica europea”, ha scatenato la ritorsione cinese: blocco selettivo dell’export di componenti elettronici dalla provincia del Guangdong, cuore pulsante della manifattura hi-tech.Quello in corso non è un semplice confronto commerciale, ma un ridisegno della geoeconomia globale. I porti, un tempo simboli di libero scambio, diventano oggi avamposti strategici, strumenti di influenza, oggetti di contesa. Washington mira a sganciare l’Occidente dalla dipendenza industriale cinese; Pechino difende la propria proiezione logistica come leva di potere economico e diplomatico.

Il paradosso è evidente: la Cina ha costruito la sua potenza proprio integrandosi nel mercato globale dominato dagli Stati Uniti. Ora, tenta di sopravvivere a un disaccoppiamento forzato, proteggendo asset critici e innovando internamente, secondo la dottrina della “dual circulation” promossa da Xi Jinping. La vera domanda è: fino a dove possono spingersi Washington e Pechino prima che la guerra economica si cristallizzi in un nuovo ordine bipolare? Perché se l’apparente simmetria delle misure suggerisce un confronto equilibrato, la realtà è assai più asimmetrica.

La Cina conserva enormi leve industriali e logistiche, ma resta esposta sul fronte della domanda esterna e della dipendenza finanziaria. Gli Stati Uniti, deboli nella cantieristica e nelle terre rare, mantengono però il controllo dei capitali, della tecnologia avanzata e delle alleanze globali.In questo gioco a somma zero, entrambi possono perdere — ma non nello stesso modo. E in un mondo sempre più interconnesso, a pagare il prezzo più alto rischiano di essere proprio quei Paesi e quelle imprese che, convinti di poter restare neutrali, si trovano oggi costretti a scegliere da quale parte far attraccare le proprie navi.