Il riconoscimento della Palestina rompe gli argini: mentre l’Italia si ferma, la diplomazia anglosassone incrina l’asse occidentale

Ondata globale di dissenso. È un ribaltamento sistemico. La recente adesione ufficiale del Regno Unito, del Canada, dell’Australia, del Portogallo, della Francia e di Malta al riconoscimento diplomatico dello Stato di Palestina segna un punto di non ritorno nel fragile equilibrio geopolitico mediorientale.

Di Cristina Di Silvio

Palestina: riconoscimento in itinere, ma…

La Palestina è già riconosciuta da oltre 150 Stati membri delle Nazioni Unite — in gran parte appartenenti al Sud globale — comunque quanto accaduto rappresenta una svolta, almeno per i Paesi occidentali, e questo si spera possa mutare radicalmente il quadro geopolitico regionale.

Si rompe così la consuetudine dell’equidistanza apparente, del silenzio strategico, della neutralità condizionata.

Non è più possibile parlare di “conflitto” quando il rapporto tra vittime, risorse e potere è schiacciante, asimmetrico, annichilente.

Il riconoscimento della Palestina non è una concessione: è un atto dovuto, espressione di legittimità storica, giuridica e morale, condensata in un gesto politico di chiarezza ineludibile. Sostenere questo principio non è simbolismo, ma assunzione piena di responsabilità: significa ridefinire le coordinate della pace non come sterile attesa, ma come volontà precisa, consapevole, coraggiosa.

La diplomazia anglosassone e il corteo dei riconoscimenti europei.

Oltre a Londra, Ottawa, Canberra, Lisbona, Parigi e La Valletta, anche il Lussemburgo si prepara a formalizzare il riconoscimento dello Stato di Palestina.

La Francia aveva già annunciato che renderà ufficiale la propria posizione durante la prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e infatti ciò è accaduto, già al tempo delle dichiarazioni di Macron, Trump non aveva gradito.

Altri governi europei, finora cauti, valutano ora la possibilità di rompere il fronte dell’ambiguità e abbracciare una linea chiara.

Manifestazione palestina
Manifestazione palestina

Lettera di Hamas a Donald Trump: disperazione diplomatica o mossa strategica?

In un gesto sorprendente e senza precedenti, Hamas ha inviato una comunicazione diretta al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, proponendo una tregua di sessanta giorni in cambio del rilascio del 50% degli ostaggi.

L’iniziativa, mediata dal Qatar, aggira apertamente i canali ufficiali dell’amministrazione Trump, rivelando l’erosione della sua credibilità negoziale in Medio Oriente. Che si tratti di una manovra disperata o di un calcolo politico, il solo fatto che tale interlocuzione esista impone una riflessione: quale reale margine d’azione resta a Washington?

E quanto ancora la sua narrativa può reggere sotto il peso delle contraddizioni?

L’esistenza stessa di questa richiesta ridisegna il perimetro del ceasefire come strumento politico e impone un ripensamento delle dinamiche diplomatiche globali.

L’Italia si ferma: la protesta raggiunge il grado zero del compromesso.

Il sistema-Paese è entrato in uno stato di sospensione collettiva. Porti bloccati, snodi logistici paralizzati, trasporti fermi, scuole e università occupate, fabbriche belliche poste sotto assedio morale.

Le principali città italiane — Milano, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Torino, Genova, Bari, Palermo — sono attraversate da mobilitazioni che non appaiono più come manifestazioni isolate, ma come spazi politici coerenti, coordinati, convergenti. Non è disordine: è resistenza organizzata, seppur si sono registrate delle criticità nell’ordine pubblico a Milano.

Nel cuore dell’Europa si fa strada una verità ineludibile: la Palestina è diventata l’ultima linea rossa della credibilità dell’Occidente.

Ogni giorno che passa senza un mutamento concreto di rotta politica e diplomatica, avvicina l’Italia alla parte sbagliata della Storia. E oggi, per la prima volta, è la piazza a renderlo evidente — con parole, con corpi, con azioni. Il riconoscimento ufficiale da parte di governi alleati, l’onda lunga delle mobilitazioni nazionali, l’escalation delle proteste coordinate e il moltiplicarsi delle iniziative di boicottaggio economico a livello globale non lasciano più margine a interpretazioni ambigue.

La questione palestinese non è più un semplice dossier di politica estera: è diventata la frattura morale e politica centrale del nostro tempo. E non si tratta più soltanto di geopolitica. Si tratta — sempre più chiaramente — di coscienza collettiva. Questo momento costituente offre all’Italia un bivio nitido: proseguire in un equilibrio disfunzionale e autoreferenziale, o assumere finalmente una posizione netta, coerente con i propri principi dichiarati.

Le manifestazioni globali attestano che la solidarietà non ha confini.

In Australia, decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Sydney, Brisbane e Melbourne il 24 agosto. Le proteste, pacifiche ma determinate, hanno accompagnato la decisione del governo di riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina, invocando giustizia, sanzioni e cessate il fuoco immediato.

In Europa, ogni fine settimana, le capitali — Londra, Parigi, Berlino, Madrid, Oslo — continuano a registrare manifestazioni imponenti, spesso represse, raramente raccontate dai media mainstream, ma cariche di una forza crescente e dirompente.

È la loro costanza a trasformare la protesta in pressione politica reale. Da oggi prende avvio la “Settimana delle Assemblee” negli Stati Uniti.

Un fitto calendario di incontri pubblici, presidi, townhall civiche, assemblee studentesche e dibattiti accademici si apre in numerose città americane — New York, Los Angeles, Chicago, San Francisco, Washington D.C. — con un obiettivo esplicito: esercitare una pressione politica strutturata sulle istituzioni.

Al centro delle rivendicazioni: cessate il fuoco immediato, rilascio degli ostaggi, interruzione dei rapporti con l’industria bellica, trasparenza nei legami fra mondo accademico e apparati militari, ridefinizione della politica estera statunitense.

Questa fase segna un salto qualitativo: dal dissenso di piazza alla costruzione di un’architettura politica diffusa.

La geopolitica sta cambiando. E anche l’Italia dovrà decidere da che parte stare. Gli eventi recenti non sono episodi isolati né simboli passeggeri. Sono segni tangibili di un cambio di paradigma già in corso. Nuove alleanze, nuovi assetti diplomatici, nuove gerarchie morali stanno ridisegnando il senso stesso dell’appartenenza occidentale.

Chi oggi resta immobile, domani sarà giudicato complice.

La strada è tracciata.

La Storia — e le piazze — giudicheranno.