La libertà che le abbiamo negato. Martina, 14 anni, uccisa da un amore che non era amore

di Cristina Di Silvio

“Se mi lasci ti ammazzo.” Non è solo una frase da cronaca nera. È come una mina sotterrata sotto le fondamenta della nostra cultura, pronta a esplodere ogni volta che una donna sceglie sé stessa. È l’eco sordo di un sistema malato che ha travestito il controllo da passione, la paura da amore. E ora Martina non c’è più. Aveva 14 anni.

Martina, ancora un omicidio

14 anni. La stessa età in cui si sogna il primo bacio, non la condanna a morte per aver detto “basta”.

Martina aveva solo il coraggio di voler vivere. E per questo è stata uccisa. Non è un’eccezione: è l’ennesima. Un nome che si aggiunge a una lista che non è più un elenco: è un cimitero. Se incisi su pietra, quei nomi formerebbero una muraglia più alta di qualsiasi monumento. Un muro di dolore che ci circonda e che fingiamo di non vedere.

Il carnefice di Martina non è un “mostro”. Non è un’anomalia. È il prodotto fin troppo normale di una società che per decenni ha insegnato che “la gelosia è amore”, come se l’amore potesse somigliare a un cappio. È il figlio di una cultura che ha insegnato alle ragazze a guardarsi le spalle, ma non ha mai insegnato ai ragazzi a non essere un pericolo. La sua mano era sola, ma non era sola. Era sostenuta da secoli di silenzi, da risate a mezza bocca, da giudici che minimizzano, da genitori che dicono “non provocare” invece di dire “rispetta”. Il femminicidio non è una tempesta improvvisa.

È una valanga che parte da una crepa: una password rubata, un messaggio controllato, un’amica allontanata. È come una casa che crolla, mattone dopo mattone: prima il controllo, poi l’isolamento, infine la cancellazione. La libertà di Martina è stata strappata centimetro dopo centimetro, come si strappa un vestito cucito con i fili dell’identità. Fino a che non è rimasto più nulla da togliere, se non la vita.Quanto vale, oggi, la vita di una ragazza? In un mondo in cui l’amore è ancora raccontato come sacrificio, in cui dire “no” diventa una colpa e non un diritto, il suo valore sembra trattabile come in un mercato.

Martina femminicidio

Martina voleva solo vivere. Solo scegliere. Solo essere. Come si condanna qualcuno per aver chiesto la cosa più umana di tutte: essere libera? Se la libertà di una ragazza è percepita come una minaccia, allora non è Martina ad aver sbagliato. È la società a essere colpevole. Colpevole di non aver formato, di non aver parlato, di non aver avuto il coraggio di guardarsi allo specchio. Ogni volta che un’insegnante evita il tema, ogni volta che un padre dice alla figlia “copriti” e non al figlio “non invadere”, ogni volta che si giustifica la rabbia maschile come “scatto”, si aggiunge una goccia al veleno. E quel veleno, oggi, ha ucciso Martina. Martina è un urlo. Un campanello d’allarme che ormai suona senza sosta.

Il femminicidio non è solo cronaca: è una radiografia culturale. Serve riscrivere tutto. Il modo in cui parliamo d’amore, il modo in cui raccontiamo cosa significa essere uomo, cosa significa essere libera. Serve una nuova grammatica delle relazioni, dove “amore” non faccia rima con “controllo”, dove “passione” non giustifichi l’annullamento dell’altro.

Oggi, Martina ci chiede una scelta. Possiamo onorarla con una panchina rossa, oppure possiamo farci scomodi. Possiamo raccontare le storie come sono davvero. Possiamo insegnare ai figli che il rifiuto non è una sconfitta, ma un diritto sacro dell’altro. Possiamo cambiare la radice, e non solo piangere i frutti amari. Perché se in questo Paese essere libera è ancora pericoloso, allora non siamo davvero liberi. E nemmeno giusti. Martina non è solo una vittima. È una voce che ci chiede di non rimanere in silenzio. E noi, oggi, abbiamo il dovere di amplificarla.

Con le parole. Con l’educazione. Con il coraggio di cambiare.