La crisi umana dietro la guerra israelo-iraniana

di Cristina Di Silvio

13 giugno 2025. Israele ha varcato una soglia invisibile ma decisiva: ha colpito direttamente il suolo iraniano. Non più guerre per procura, non più schermaglie in teatri lontani: stavolta la guerra guarda in faccia l’avversario.

Israele, è guerra continua, oramai

L’escaltion in M.O. è un salto qualitativo, sì. Ma verso cosa? Verso la sicurezza o verso l’abisso? L’operazione militare israeliana – chirurgica nei mezzi, devastante nei simboli (esempio di strike mirato nella foto) – ha disarticolato parte della catena di comando militare iraniana. A morire, non sono stati solo due generali, ma un intero sistema di equilibri precari.

Guerra, strike chirurgico

L’Iran ha risposto, inizialmente con 100 missili. La tecnologia ha retto, con tassi di intercettazione impressionanti. Ma ciò che nessun radar può fermare è l’escalation morale, politica, umana.

Per la prima volta, l’“Octopus Doctrine” – colpire la testa e non solo i tentacoli – diventa realtà operativa, si era gia visto, a dire il vero, con la guerramossa contro hezbollah, disarticolandone i vertici, inseguendo, anche, i leader di hamas, anche fino in Iran, eppure rimangono degli interrogativi.

Ma chi decide dove sia la testa e chi siano i tentacoli? Quali criteri, quali diritti, quali limiti restano quando la guerra preventiva si traveste da autodifesa?

Dove finisce la deterrenza e dove comincia l’aggressione? Washington prende le distanze ma mantiene le navi nel Golfo. Mosca e Pechino condannano ma sigillano i legami con Teheran. Il mondo si muove come un orologio rotto: ticchettii disallineati, retoriche dissonanti, minacce che si moltiplicano. Nessuno ha il coraggio di fermarsi. Tutti avanzano. Ma verso dove? E mentre i droni sorvolano città spettrali, nei mercati globali si alzano i prezzi, scendono le certezze, si allarga il vuoto. Il petrolio vola sopra i 106 dollari al barile. Le economie si irrigidiscono.

Ma i numeri – sempre loro – dicono poco. Non raccontano i volti. Non raccontano i padri che cercano pane, i figli che non trovano futuro, le donne che gridano e vengono silenziate. L’Iran è allo stremo. Un’economia implosa, un tessuto sociale lacerato, una gioventù inchiodata tra povertà e repressione. La rabbia esplode nelle piazze, ma chi ascolta il suono di quelle urla? I satelliti le osservano, i leader le ignorano, i media le filtrano. E intanto, la rabbia interna rischia di trasformarsi in guerra esterna. Nuove milizie. Nuove morti. Nuovi pretesti. Tre scenari si delineano, ma nessuno promette pace. Una guerra regionale che potrebbe divorare tutto.

Uno stallo armato, dove la tensione è la nuova normalità. Una mediazione sterile, promossa da chi cerca solo visibilità. E allora ci chiediamo: cosa vuol dire oggi “proteggere il futuro”? È forse sinonimo di colpire per primi? È legittimo sacrificare migliaia di vite per “prevenire” l’irreversibile? È giusto trasformare popoli in scudi e territori in scacchiere? La geopolitica si fa ogni giorno più multipolare, più fluida, più instabile. Ma nel frastuono delle alleanze, nella nebbia degli accordi militari, rischiamo di perdere l’unica bussola che dovrebbe guidarci: l’etica della responsabilità.

Il mondo non ha bisogno di strategie letali travestite da diplomazia. Ha bisogno di leader che sappiano vedere oltre il confine delle proprie convenienze. Ha bisogno di un linguaggio nuovo, che metta l’umano al centro, che trasformi la forza in protezione, la potenza in cura. Serve una nuova grammatica della pace. Una visione lucida. Una prontezza che non significhi solo rispondere al fuoco, ma saperlo spegnere.

Una capacità operativa che tenga insieme potenza e compassione, sicurezza e giustizia, interesse e umanità. Perché se tutto diventa legittimo in nome della “difesa”, se ogni attacco è una precauzione, se ogni morte è un danno collaterale, allora non stiamo più proteggendo il futuro. Lo stiamo scavando, invece.