Mentre Netanyahu radicalizza la postura bellica e l’Occidente si defila sulla crisi di Gaza, la legittimità politica di Israele vacilla sotto la pressione combinata della diplomazia, della tecnologia e del diritto internazionale.
di Cristina Di Silvio
Gaza, una lettura per immagini…
Iniziando da quella che raffigura un solitario Bibi che parla all’ONU, sullo sfondo? Altre immagini, ovviamente, quelle dei campi profughi, quella di una Gaza demolita, letteralmente.


Nel teatro rarefatto e rituale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il discorso del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è configurato come un’escalation verbale senza precedenti. “Finiremo il lavoro a Gaza il più velocemente possibile” – ha dichiarato con tono assertivo, quasi sprezzante, di fronte a una sala visibilmente svuotata da decine di delegazioni, in segno di protesta. Parole che, pur rivestite della patina di una promessa, suonano inequivocabilmente come una minaccia.
Non si è trattato di un discorso istituzionale. È stato un monologo strategico, studiato per scuotere le coscienze amiche e cementare le alleanze residue. Ma soprattutto, è stato l’annuncio formale che Tel Aviv non ha intenzione di rientrare nei ranghi del multilateralismo, né di conformarsi alle pressioni crescenti del consesso internazionale.
Sul petto, Netanyahu portava appuntata una spilla che fungeva da QR code: un simbolo della guerra moderna, dove la propaganda si fa interattiva e il dolore si converte in ipertesto. Il codice rimandava a una piattaforma multimediale dedicata alle atrocità perpetrate da Hamas il 7 ottobre 2023, data che Israele considera la propria “giornata del trauma nazionale”.
Con tono didattico – quasi da docente di una scuola militare – Netanyahu ha poi trasformato l’emiciclo in una classe improvvisata, esortando i presenti a rispondere a un quiz esibito su cartelli. “Chi grida ‘morte all’America’?”, ha chiesto mostrando una tabella con le opzioni: Iran, Hamas, Hezbollah, Houthi, “Tutte le precedenti”. “La risposta corretta è: tutte le precedenti”, ha concluso, disegnando con pochi tratti una visione dicotomica e manichea del mondo, dove l’Occidente e Israele sono assediati da una galassia omogenea di nemici esistenziali.

Il messaggio è trasparente: chi critica Israele, chi ne denuncia l’eccesso bellico, si schiera oggettivamente con i suoi nemici. Non esiste spazio per la diplomazia, né per la complessità. Tuttavia, l’onda lunga delle parole del premier si è infranta su un muro che Tel Aviv non si aspettava: quello eretto dai suoi stessi partner occidentali. Nel silenzio delle aule riunioni di Microsoft, si è consumata una cesura storica. Dopo un’inchiesta del Guardian che ha rivelato l’utilizzo della piattaforma Azure da parte dell’Unità 8200 – il braccio cibernetico dell’intelligence militare israeliana – per raccogliere e analizzare dati massivi sulle comunicazioni dei civili palestinesi, il colosso statunitense ha deciso di interrompere parte della collaborazione con l’esercito israeliano. Quello che per anni era stato uno strumento di cloud computing si era trasformato in una piattaforma operativa di guerra. Non solo conservazione di dati, ma applicazione di machine learning per localizzare bersagli, prevedere movimenti di massa, sincronizzare operazioni di bombardamento.
In sintesi: tecnologia civile al servizio di una guerra asimmetrica contro una popolazione già strangolata dall’assedio.
Microsoft, incalzata dalle pressioni del movimento interno No Azure for Apartheid, ha tagliato l’accesso. Una decisione epocale. Per la prima volta dall’inizio del conflitto, un’azienda occidentale rifiuta il proprio contributo all’apparato bellico israeliano. Non per convenienza economica, ma per un principio etico. E il disimpegno tecnologico non è l’unico segnale di isolamento.
Anche il fronte sportivo, tradizionalmente impermeabile alle dinamiche geopolitiche, inizia a manifestare crepe profonde. UEFA e FIFA stanno seriamente valutando l’espulsione delle squadre israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali, in parallelo a quanto già avvenuto con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. La European Broadcasting Union, dal canto suo, ha messo all’ordine del giorno una votazione per escludere Israele dal prossimo Eurovision Song Contest, dopo le minacce di boicottaggio da parte di diverse emittenti pubbliche europee. Un segnale chiaro: la normalizzazione culturale e sportiva non è più automatica. È soggetta a responsabilità, a condotta.
La neutralità non è più concessa. Nel frattempo, anche l’egemonia diplomatica degli Stati Uniti sembra barcollare. Donald Trump – tornato protagonista della scena internazionale – ha dichiarato che “un accordo è vicino” e che “a Gaza ci sarà la pace”. Ma la realtà sul terreno e le dinamiche diplomatiche raccontano altro.
Il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, ha dovuto intervenire da remoto: gli è stato negato il visto d’ingresso negli Stati Uniti, un atto di censura diplomatica che grida vendetta alla luce del diritto internazionale. Un gesto che, agli occhi del mondo arabo, equivale a una squalifica della controparte palestinese dai negoziati. Nel suo intervento, Abbas ha reiterato la condanna delle azioni di Hamas – “non rappresenta il popolo palestinese” – ma ha anche denunciato con durezza “il genocidio in corso” nella Striscia, definendolo “una delle tragedie più oscure del XXI secolo”. Ha poi ricordato che l’Autorità Palestinese ha riconosciuto lo Stato di Israele fin dal 1988 e, nuovamente, negli Accordi di Oslo del 1993. Eppure, questo riconoscimento non ha prodotto né pace, né confini, né sicurezza. “Vogliamo vivere in uno Stato sovrano e indipendente, entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale” – ha dichiarato, con voce tremante ma determinata.
Un appello all’ordine giuridico internazionale che sembra oggi più che mai privo di interlocutori. Sullo sfondo delle dichiarazioni e delle manovre diplomatiche, Gaza continua a sanguinare.
L’operazione israeliana, che il governo presenta come “chirurgica” e “proporzionata”, ha assunto i contorni devastanti di un conflitto senza limiti. Colpiti ospedali, scuole, infrastrutture civili. Intere famiglie cancellate in un istante. Le denunce di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani non sono più circoscritte agli attivisti o alle ONG. Provengono da relatori indipendenti delle Nazioni Unite, da tribunali internazionali, da organizzazioni umanitarie la cui autorevolezza è difficilmente contestabile. Israele, tuttavia, continua a negare ogni addebito.
Accusa il mondo di ipocrisia. E si blinda dietro il principio della sicurezza nazionale, trasformando la difesa in dottrina di assedio permanente.
La crisi in corso non è soltanto militare. È una crisi della legittimità, una sfida sistemica all’intero impianto dell’ordine internazionale post-bellico. Se Israele perde il sostegno tecnologico, culturale, sportivo e diplomatico dell’Occidente, ciò che verrà meno non sarà solo una rete di alleanze: sarà l’intero impianto di compatibilità tra democrazia, sicurezza e diritto internazionale. La guerra a Gaza ha ormai superato i confini del conflitto territoriale: è divenuta cartina di tornasole per misurare la tenuta morale dell’Occidente. E la domanda che resta, cruda e ineludibile, è la seguente: Il mondo è pronto a disconoscere uno Stato alleato se esso tradisce i principi sui quali lo stesso ordine mondiale è stato edificato? La risposta, per ora, è sospesa tra l’etica e la realpolitik. Ma la storia – inesorabile – si incaricherà di formularla.