…carceri: abbiamo un problema

di Cristina Di Silvio

A pochi giorni dall’insediamento del nuovo vertice al DAP e dall’approvazione del decreto sicurezza si palesa un contrasto paradossale: 94enne non fragile e quindi ristretto in carcere, ma cosa succede?

Non fragile, o comunque non abbastanza

A 94 anni, un uomo resta in carcere: per il giudice non è a rischio imminente di morte. Ma che idea di giustizia ci resta, se dimentica la fragilità? È difficile immaginare cosa significhi svegliarsi ogni mattina in una cella a 94 anni.

Le mani tremano, le gambe cedono, la memoria inciampa. Il respiro è corto, il corpo lento, gli anni vissuti – molti – iniziano a pesare più della pena stessa. Ma per lo Stato italiano, tutto questo non basta. Secondo il magistrato di sorveglianza di Firenze, l’anziano detenuto – pur fragile – non sarebbe “a rischio di un rapido declino in salute”.

Fragile ma non abbastanza.

È dunque destinato a rimanere in carcere. Una decisione che non può lasciare indifferenti. Perché se il diritto penale ha ancora il volto della persona, allora non può ignorare la realtà concreta di corpi logorati e vite in fase terminale. Il caso, che ha trovato eco nei giorni scorsi sulla stampa, non è solo un’anomalia giudiziaria.

Sollecitano carcere fragile

È uno specchio inquietante di come, in certe pieghe del sistema, la legalità possa perdere il contatto con l’umanità. L’art. 47-ter dell’Ordinamento Penitenziario consente, in presenza di gravi condizioni di salute, l’accesso alla detenzione domiciliare. Non è una norma eccezionale, né “buonista”: è l’attuazione di un principio costituzionale, quello per cui la pena deve essere sempre compatibile con la dignità della persona (artt. 27 e 32 Cost.).

La Corte costituzionale, con sentenza n. 56/2021, ha chiarito che anche chi ha commesso reati gravi, se anziano e malato, ha diritto a una valutazione individualizzata. Eppure, in questo caso, la bilancia della giustizia ha pesato il corpo dell’uomo, ma non il suo dolore. Ha valutato la “non imminenza” della morte come se fosse sufficiente garanzia di tolleranza al regime carcerario. Ma è davvero questa la soglia minima che legittima la detenzione? Davvero basta non morire subito per essere considerati “detenibili”?

Le carceri italiane, già duramente colpite da problemi strutturali e sovraffollamento, non sono attrezzate per garantire una dignitosa assistenza a persone ultraottantenni. Secondo i dati del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, al 2024 erano oltre 1.000 i detenuti con più di 70 anni. Di questi, una parte significativa presentava gravi patologie croniche. In molti casi, la detenzione non solo è inutile ai fini rieducativi, ma rischia di diventare essa stessa causa di aggravamento, isolamento e deterioramento psicofisico. Quando la punizione smette di essere utile – o diventa solo simbolica – si trasforma in crudeltà. E allora la domanda si impone: a cosa serve, davvero, tenere in carcere un uomo di 94 anni? Il nodo, forse, sta proprio nella discrezionalità.

Il giudice ha facoltà di decidere. Ma quando questa decisione sembra ignorare il contesto umano, medico e sociale del caso concreto, si rischia un corto circuito tra diritto e giustizia. Una giustizia fredda, che considera un uomo non abbastanza fragile da meritare clemenza, è ancora giustizia? Le norme ci sono. I precedenti giurisprudenziali pure. Ciò che spesso manca è la capacità – o il coraggio – di guardare oltre il codice, verso il volto della persona. Perché la fragilità non è solo una condizione clinica: è un’esperienza esistenziale, che impone una responsabilità etica prima ancora che giuridica. Non è pietismo, non è lassismo. È solo la domanda che un diritto maturo non può smettere di farsi: quando una condanna diventa disumana? E a cosa serve la legalità, se smette di ascoltare chi non ha più voce?