di Cristina Di Silvio
Doveri, un mantra che si contrappone ai diritti
Nell’era della connessione permanente e dell’informazione istantanea, mentre dita distratte scorrono schermi per evitare il peso della realtà, intere popolazioni vengono inghiottite da un collasso umanitario silenzioso e sistematico.
Non si tratta di retorica, né di esagerazione mediatica: è il volto autentico della barbarie.
Bambini che si spengono lentamente per fame, donne che partoriscono sotto il fragore delle esplosioni, bambine vendute o date in sposa prima ancora di acquisire coscienza del proprio corpo.
In vaste aree del pianeta, la parola “diritto” non ha alcuna aderenza alla realtà.
Esistono solo doveri imposti con la violenza: obbedienza cieca, silenzio coattivo, sopravvivenza come unica prospettiva. Spesso, la morte non rappresenta più una sconfitta, ma una forma estrema di sollievo.

Da Gaza allo Yemen, dal Sudan alla Siria, dall’Afghanistan alle periferie invisibili dell’Africa subsahariana, fino alle guerre dimenticate del Centro America, si disegna una geografia della sofferenza che si ripete con meccanica precisione.
La storia, evidentemente, non insegna. O peggio, l’Occidente ha smesso di ascoltare.
Le dichiarazioni di solidarietà si dissolvono nella liturgia delle conferenze stampa. La pietà pubblica si esaurisce in un gesto di indignazione rapida, consumata in meno tempo di uno scroll. I report delle agenzie internazionali si riducono a fredde tabelle numeriche, sfogliate distrattamente e immediatamente archiviate. Ma ogni cifra cela una tragedia irriducibile: un nome non pronunciato, una vita bruciata, una madre che crolla con il proprio figlio morto tra le braccia.

Nel 2025, una bambina su cinque vive in zone di conflitto. Molte di loro non raggiungeranno l’adolescenza senza essere già state costrette a contrarre matrimonio, a servire, a rinunciare al proprio futuro. Cresceranno nell’oblio di ogni libertà, private non solo dei diritti fondamentali, ma perfino della possibilità di desiderarli. Non conosceranno la parola “autodeterminazione”.
In molti casi, non conosceranno nemmeno l’infanzia.
In questo contesto drammatico, assume una rilevanza straordinaria l’iniziativa internazionale Spotlight Initiative – A Global Partnership to Eliminate Violence Against Women and Girls, svoltasi martedì 23 settembre 2025, dalle 13:15 alle 14:30, presso la Sala Conferenze 4 del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite.
Un vertice multilaterale ad altissimo livello, che ha riunito capi di Stato, rappresentanti delle istituzioni internazionali, attivisti, artisti e leader della società civile in una convergenza senza precedenti.
Un evento cruciale, non soltanto per la portata simbolica, ma per la necessità impellente di tradurre le parole in strumenti legislativi vincolanti, in risorse effettive, in misure protettive immediate e trasversali.
Tra i partecipanti: H.E. Joseph Boakai, Presidente della Liberia; H.E. Julius Maada Bio, Presidente della Sierra Leone; H.E. Yoweri Kaguta Museveni, Presidente dell’Uganda; H.E. Hakainde Hichilema, Presidente dello Zambia; H.E. Amina J. Mohammed, Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite; H.E. Amma Twum-Amoah, Commissaria dell’Unione Africana per la Salute, gli Affari Umanitari e lo Sviluppo Sociale; H.E. Jozef Síkela, Commissario dell’Unione Europea per i Partenariati Internazionali; Kirsty Coventry, Presidente del Comitato Olimpico Internazionale; Hana Brixi, Direttrice Globale per la Parità di Genere presso la Banca Mondiale; Dr. Abiola Akiyode-Afolabi, rappresentante della società civile per Spotlight Initiative; Cecilia Suárez, attrice e Ambasciatrice Globale delle Nazioni Unite per Spotlight Initiative; Amanda Nguyễn, astronauta, attivista, CEO e fondatrice di Rise; Uldouz Wallace, attrice e attivista per i diritti delle donne; Gary Barker, Presidente e CEO di Equimundo.
La scrivente, presente nelle vesti di Director of Legal Affairs and Treaty Compliance per GOEDFA, ha tracciato una linea netta tra la diplomazia e la giustizia, evidenziando l’urgenza di passare da un sistema che osserva a uno che agisce, da una giustizia evocata a una giustizia applicata.
Ancora, nel continuare il suo intervento, questa auteice, ha sottolineato la riaffermazione del diritto internazionale come strumento effettivo di tutela e non solo come enunciazione di principi.
Spotlight Initiative non è un contenitore simbolico: è un crocevia decisionale. Un punto di rottura rispetto all’inazione passata. È il grido della comunità globale che, di fronte alla violenza sistemica contro donne e bambine, non può più invocare ignoranza, né ritardi, né mancanza di risorse. È l’assunzione esplicita di una responsabilità collettiva.
È tempo di misure radicali, trasversali, non negoziabili. Ma la guerra, come detto, è solo la manifestazione ultima di un degrado più profondo.
Il vero collasso è morale. È l’indifferenza sistemica. È l’apatia etica di una civiltà che ha cessato di percepire l’altro come parte di sé, rifugiandosi dietro confini fisici, dottrinali e digitali.
Un’umanità che, pur nel benessere materiale, vive una carestia spirituale. Che si racconta la favola dell’“inutile coinvolgimento” mentre consuma il terzo pasto della giornata e pianifica le ferie.
In questo deserto di senso, l’affermazione di Cesare Pavese si erge come un monito, come un atto d’accusa, ma anche come indicazione di rotta:
“La solitudine si cura in un solo modo, andando verso la gente e donando invece di ricevere. Si tratta di un problema morale prima che sociale e bisogna imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Finché uno dice sono solo, sono estraneo e sconosciuto, sento il gelo, starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri. E questo è tutto.”
Sì, questo è tutto.
Il dolore non è spettacolo, è responsabilità.
La fame non si denuncia con buone intenzioni, si affronta con risorse e azione.
Le bambine non si salvano con editoriali, ma con leggi, protezione e cultura. L’umanità non si recupera in dichiarazioni di principio, ma nelle scelte quotidiane di chi si rifiuta di normalizzare l’abisso.
Finché ci sarà anche un solo essere umano che muore ignorato nel silenzio del mondo, ogni presunto progresso sarà una farsa. E chi osserva senza agire, chi tace per convenienza, chi si ritrae per comodità, sarà inevitabilmente complice. O peggio: sarà vuoto.
La pace non è un’utopia, ma una costruzione.
Un atto di volontà. E comincia sempre con una scelta irrevocabile: restare umani. Anche — e soprattutto — quando tutto sembra congiurare per renderci disumani.