La criminalità minorile non è solo il prodotto di contesti socioeconomici disagiati, ma rappresenta anche il riflesso di un fallimento sistemico del sistema giuridico, che troppo spesso, invece di rispondere alle specifiche vulnerabilità dei minori, perpetua forme di esclusione e marginalizzazione. Le normative internazionali, pur ampie e teoricamente avanzate, non sempre riescono a garantire una protezione effettiva ai minori coinvolti in attività criminali, privilegiando approcci punitivi piuttosto che riabilitativi. Questo orientamento contribuisce a rafforzare il ciclo di recidiva e disintegrazione sociale.
di Annalisa Imparato e Cristina Di Silvio
Criminalità minorile, tra diritto e realtà urbana
La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo (CRC, 1989) costituisce il cardine della giurisprudenza sui diritti dei minori, imponendo che essi siano trattati in modo compatibile con la loro età e sviluppo. L’articolo 40 stabilisce che le misure giuridiche debbano essere orientate alla rieducazione e alla reintegrazione, non alla mera punizione. In ambito europeo, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU, 1950) garantisce a ogni individuo, compresi i minori, il diritto a un processo equo e pubblico (art. 6) e vieta pene disumane, tortura e pena di morte (art. 4). Tuttavia, la disparità tra gli Stati membri nell’applicazione di questi principi evidenzia l’inadeguatezza strutturale delle politiche di giustizia minorile e la necessità di un’applicazione più uniforme e vincolante.
In Italia, la Legge 448/1988, istitutiva del Codice Penale Minorile, prevede misure alternative alla detenzione, in linea con le direttive internazionali, ma la sua attuazione è spesso limitata da carenze di risorse e da strutture inadeguate. Nonostante l’articolo 27 della Costituzione italiana, che stabilisce che la pena debba tendere alla rieducazione, e la Legge 1815/1962, il sistema continua a privilegiare la detenzione rispetto a forme più efficaci di reinserimento sociale. La Legge 62/2011 ha tentato di migliorare il trattamento educativo dei minori in conflitto con la legge, ma permangono criticità dovute alla scarsità di fondi e alla debole cooperazione tra istituzioni.

A livello internazionale, il Protocollo di Palermo sul traffico di minori e la Convenzione dell’Aja (1993) sulla protezione dei minori da abuso e sfruttamento rappresentano strumenti giuridici fondamentali, ma la loro efficacia è limitata dalla mancanza di cooperazione tra Stati e dall’impunità diffusa. La Risoluzione 1612 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU vieta il reclutamento dei minori nei conflitti armati, ma la sua applicazione dipende fortemente dalla volontà politica degli Stati. Il Protocollo opzionale della CRC (2000), dedicato alla protezione dei minori nei conflitti armati, costituisce un progresso normativo rilevante, ma in molte aree la tutela resta più teorica che concreta.
È quindi urgente una riforma strutturale delle politiche giuridiche, orientata a un modello di giustizia riparativa. Questo approccio, già adottato in diversi Stati dell’UE, mira alla rieducazione e alla reintegrazione sociale, più che alla mera condanna. Comunità educative sostenute da politiche pubbliche inclusive e risorse dedicate sono indispensabili per garantire il reinserimento dei giovani. Solo un sistema giuridico coeso, capace di integrare norme nazionali e internazionali, potrà tutelare efficacemente i minori da sfruttamento e violenza.
Negli ultimi anni, la cronaca italiana ha evidenziato un incremento dei casi di criminalità minorile, spesso connessi a fenomeni di devianza giovanile radicati in contesti segnati da marginalità economica, dispersione scolastica e mancanza di opportunità sociali. In quartieri periferici e aree urbane degradate, l’assenza di servizi educativi adeguati, la fragilità delle reti familiari e la presenza di modelli criminali consolidati favoriscono l’ingresso precoce dei giovani nei circuiti delinquenziali. La partecipazione a bande locali o baby-gang non rappresenta solo una scelta individuale, ma anche una forma di riconoscimento e appartenenza, dove il crimine diventa linguaggio identitario e risposta alla mancanza di alternative.
I casi recenti lo confermano: a Caivano (2023), gruppi giovanili hanno mostrato il degrado sociale e l’assenza di presidi educativi [RAI News, 2023]; a Napoli, episodi di accoltellamenti e rapine tra minorenni hanno evidenziato la diffusione delle baby-gang [Il Mattino, 2024]; a Milano, in via Melegnano, la violenza tra adolescenti ha dimostrato come il fenomeno interessi anche i grandi centri del Nord [Corriere della Sera, 2024]. Il termine maranza definisce giovani riconoscibili per codici di gruppo, estetica ostentata e identità legata a musica trap, moda e social media [Accademia della Crusca, 2023; Treccani, 2023], una subcultura ibrida in cui coesistono percorsi differenti: da una parte la normalità di scuola e sport, dall’altra condotte a rischio e microcriminalità.
I dati più recenti confermano un aumento dei minori denunciati per reati di strada nell’ultimo biennio, con crescita post-pandemica soprattutto nelle aree metropolitane del Nord [Ministero dell’Interno, 2024; TGCOM24, 2025; Eurocomunicazione, 2025]. In Lombardia, provvedimenti restrittivi per rapine e lesioni dimostrano l’attenzione delle procure minorili e la preferenza per misure comunitarie o domiciliari, in linea con i principi educativi [EspansioneTV, 2025].
Gli interventi più efficaci si fondano su tre assi principali: Presidio scolastico ed educativo prolungato, con orientamento, tutoraggio e didattica laboratoriale; Spazi di comunità e attività sportive o culturali a basso costo, co-progettati con i giovani; Giustizia riparativa e misure alternative precoci, con tutor legali e mediatori di strada.
L’obiettivo è disinnescare la funzione identitaria del gruppo deviante, offrendo appartenenze positive e opportunità di riconoscimento sociale.
La criminalità minorile non può essere ridotta a una semplice devianza individuale, ma va interpretata come risposta collettiva a un tessuto sociale frammentato, dove l’assenza di istituzioni educative solide e di prospettive concrete genera un senso diffuso di abbandono generazionale. La responsabilità collettiva consiste nel garantire percorsi di reintegrazione e opportunità di crescita reale, restituendo ai giovani la possibilità di scegliere la strada della vita, non quella della sopravvivenza.
Come ricordava Edoardo De Filippo, «Fuitevenne» non come invito alla fuga, ma come richiamo a liberarsi da un sistema che soffoca i sogni e impedisce ai giovani di crescere.