Il carcere è oggi la trincea dimenticata dell’Occidente, una frattura sociale in cui si sedimentano gli scarti della modernità, le macerie della globalizzazione, i traumi delle guerre non dichiarate, i fantasmi della crisi migratoria e della disgregazione familiare. È il punto cieco delle democrazie che si proclamano paladine dei diritti umani, mentre tollerano la costruzione sistematica di luoghi dove il diritto è sospeso e la persona ridotta a mera variabile amministrativa.
di Cristina Di Silvio
Carcere, overview e denuncia: il tema di questo pezzo
L’argomento carcere non impatta solamente (eufemismo) sul recupero del condannato, sul reinserimento successivo, quando rimesso in libertà o in altra condizione meno afflittiva, ma interessa la vita di quegli uomini e donne a 360°.
Non è più una questione da affidare solo a giuristi o garantisti da salotto: è geopolitica interna, strategia di difesa, sopravvivenza democratica. Nel cuore dell’Europa che predica legalità e Stato di diritto, le carceri traboccano di corpi invisibili e biografie spezzate.
In Italia, oltre 62.000 persone sono rinchiuse in istituti sovraffollati e strutturalmente inadeguati, nonostante la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza Torreggiani e altri c. Italia, 2013) per trattamenti inumani e degradanti. Ma quanto accade da noi si riflette, con simile gravità, anche in Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. In Francia, i suicidi tra detenuti sono aumentati del 30% in cinque anni. In Grecia, celle sovraffollate ospitano fino a quaranta persone con un solo bagno.
Negli Stati Uniti, dove vige un vero e proprio complesso industriale-carcerario, l’isolamento prolungato viene applicato anche su minori, in aperta violazione della Convenzione ONU contro la tortura. In Brasile, i detenuti vivono stipati in condizioni igienico-sanitarie al limite dell’emergenza umanitaria, tra bande armate e poliziotti corrotti.
In Nigeria si muore di fame. In Egitto, le carceri segrete operano come centri di tortura sistematica, sotto lo sguardo complice della comunità internazionale. A Gaza, le prigioni improvvisate trattengono civili senza processo né tutela legale, in condizioni che sfidano ogni parametro di umanità. È un fenomeno globale, strutturale, trasversale. E tuttavia, l’Occidente continua a dissimularlo, mascherandolo con la retorica del progresso, della civiltà giuridica, dell’inviolabilità dei diritti.

Nel contesto italiano, il tentativo di rispondere a questa crisi prende il nome di “lavoro penitenziario”, ma si tratta di una misura illusoria.
Meno del 5% dei detenuti lavora per soggetti esterni con un contratto regolare. Un ulteriore quota del 30% è impegnato in attività interne marginali, precarie e spesso umilianti: portavitto, scopini, spesini. Mansioni che non formano, non qualificano, non redimono. Il resto — la maggioranza assoluta — resta escluso: tossicodipendenti, migranti traumatizzati da rotte infernali, soggetti con gravi disturbi psichiatrici, invalidi, detenuti al 41-bis o condannati all’ergastolo. Per loro, il lavoro resta una promessa vuota. Eppure, la narrazione politica continua a proporre la “reinclusione occupazionale” come panacea. Una retorica distante anni luce dalla realtà. Anche dove il sistema ha prodotto modelli virtuosi — come le cooperative Giotto a Padova, Work Crossing ed Extraliberi a Torino — questi vengono ignorati o addirittura ostacolati.
Il call center che un tempo impiegava cento detenuti oggi ne accoglie meno di trenta, non per mancanza di lavoro, ma per l’incapacità dell’amministrazione penitenziaria di selezionare e trasferire i profili idonei. Non è una crisi di risorse, ma di governance. Non è una questione di strumenti, ma di volontà.
Emblematica la testimonianza di Antonio, ex detenuto e oggi team leader nello stesso call center dove aveva iniziato a lavorare durante la pena: “Il lavoro mi ha restituito dignità, mi ha salvato dalla solitudine. Ma senza quegli incontri, senza qualcuno che credesse in me, sarei rimasto uno scarto. La vera pena non è la cella, è l’abbandono.” Storie come la sua dovrebbero essere la norma. Invece restano eccezioni. E le eccezioni non fanno sistema.
Il sistema carcere — in Italia come altrove — è un meccanismo fallimentare. Lo dimostrano gli alti tassi di recidiva, la desertificazione delle figure educative, l’elefantiasi burocratica che paralizza ogni iniziativa. Direttori, educatori, magistrati, polizia penitenziaria, imprenditori, cooperative, volontari: ognuno opera nel proprio sito, senza coordinamento, senza strategia, senza visione.
Non è solo inefficienza: è un sabotaggio silenzioso. È la perpetuazione dell’invisibilità. A livello globale, il carcere si è trasformato in laboratorio del controllo e dell’abbandono. Mentre aumentano telecamere, torrette, sistemi biometrici e reti d’acciaio, si svuota l’essenza stessa del principio costituzionale sancito dall’articolo 27: “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un principio sistematicamente tradito.
La Turchia ha piegato il sistema penale alla repressione politica.
In Cina, milioni di uiguri e dissidenti vengono “rieducati” con metodi che annientano l’identità.
Negli Stati Uniti, l’industria carceraria privata produce miliardi, incarcerando poveri, neri, latini e malati mentali. E in Europa? Si costruiscono nuove carceri, ma non si costruisce un nuovo senso.
L’architettura del carcere globale parla una sola lingua: quella del potere che esclude, che reprime, che si protegge isolando.
Basta retorica sulla riabilitazione post-carcere, se manca il coraggio di rifondare radicalmente. Serve una nuova governance, una struttura interconnessa, un modello d’intervento multidisciplinare. Serve che la politica della sicurezza cessi di essere sinonimo di segregazione. La vera sicurezza nasce dalla coesione interna, dalla capacità di un Paese di non abbandonare i suoi margini. Il carcere, oggi, è una bomba sociale pronta a esplodere. Ignorarlo non è solo irresponsabile: è strategicamente suicida.
Non è questione di compassione. È questione di ordine pubblico, di tenuta democratica, di difesa nazionale.
Chi si occupa di Difesa — quella vera, sistemica, non folkloristica — lo sa: la sicurezza non si misura solo con satelliti, deterrenza militare o apparati d’intelligence. Si misura con la stabilità sociale. Con ciò che accade ai margini. Il carcere è oggi una falla nella sicurezza interna. Una breccia nel fronte. Un detonatore invisibile.
E mentre il tempo scorre, e il disagio cresce, e le tensioni si accumulano come gas in una camera chiusa, la politica resta inerte: distratta, afona, inetta. Non è fantapolitica. È la prossima cronaca. È il prossimo morto. La prossima rivolta. La prossima inchiesta. Come scriveva Eric Pearlman nella sua preghiera: “Tienimi l’ultimo posto, Dio. Quello in fondo alla fila. Quello che nessuno chiede.”
Oggi l’ultimo posto è il carcere, e se non lo riconosciamo, se non lo risolleviamo, ci trascinerà tutti con sé, è stato anche un messaggio lanciato da Papa Francesco, che ha dato il via alle manifestazioni giubilari proprio visitando il carcere di Rebibbia.
Questo articolo non vuole sollevare una questione etica, denuncia un’emergenza sistemica. Inattuale non è chi parla. Inattuale è chi non ascolta.