di Cristina Di Silvio
In un’epoca che pare avere perso il contatto con la propria anima, dove la crudeltà si traveste da indifferenza e la velocità ha divorato il tempo dell’empatia, c’è ancora chi ci guarda in silenzio, con occhi colmi di verità. Sono gli animali.
Gli animali non sono oggetti
Gli animali sono cmpagni di vita e spesso, nel corso della storia, anche di morte.

Dimentichiamo troppo spesso che questi esseri sono senzienti e sono protagonisti nelle nostre vite quotidiane, nelle nostre case o delle nostre terapie. Sono stati soldati, infermieri, messaggeri e martiri. Dai cavalli che galoppavano con i cavalieri crociati ai cani usati nelle trincee della Grande Guerra per portare medicinali e conforto, fino ai piccioni viaggiatori che hanno salvato centinaia di vite durante i conflitti mondiali. Hanno condiviso con noi il fango, il freddo, la fame, il sangue. Non hanno mai chiesto nulla in cambio, se non uno sguardo, una carezza, un po’ di rispetto. E troppo spesso non hanno avuto nemmeno quello.
Oggi, però, l’Italia prova a restituire loro una parte di quella dignità che la storia e la civiltà gli devono. Il 27 maggio 2025 il Senato ha approvato una riforma attesa da vent’anni, che finalmente riconosce agli animali la condizione di soggetti di diritto. Non più cose. Non più oggetti di sentimento umano, ma esseri che sentono, soffrono, amano. È una svolta culturale prima ancora che giuridica. Un passaggio epocale che rafforza le pene contro chi li maltratta, li abbandona, li uccide.
Ma soprattutto, è un segnale.
Un segno che forse, in mezzo al disorientamento morale del nostro tempo, qualcosa si muove. Che la civiltà può ancora scegliere di guardare negli occhi chi non ha voce e ascoltare. Le nuove norme sono severe e giuste: fino a quattro anni di carcere per chi uccide un animale, fino a 160.000 euro di multa per chi organizza o partecipa a combattimenti illegali. Pena più dura anche per l’abbandono e la detenzione inadeguata. E, per la prima volta, si riconosce come aggravante la violenza sugli animali davanti a minori o la diffusione online di video cruenti.
La legge vieta l’uso della catena, punisce il traffico di cuccioli e consente alle associazioni di avere un ruolo attivo nei processi. Ma non è solo un codice penale a essere aggiornato. È la nostra coscienza collettiva. È il nostro senso di responsabilità verso chi da secoli combatte al nostro fianco, spesso morendo in silenzio, senza mai tradirci. Pensiamo ai cani guida, agli animali impiegati nella pet therapy, ai cavalli che aiutano bambini e adulti a ritrovare un contatto con la vita. Pensiamo a quelli che restano accanto agli anziani, ai malati, ai dimenticati.
Non chiedono nulla, eppure donano tutto. In un’epoca dove i valori sembrano mercificati e l’indifferenza è diventata una comoda difesa contro il dolore, questi esseri ci ricordano cosa significhi fedeltà. Una fedeltà che, come quella del cane Hachiko o del cavallo durante l’assalto, non conosce tradimento nemmeno davanti alla morte. Questa legge non è solo giustizia. È una promessa. È il tentativo, forse tardivo ma ancora possibile, di costruire una società che sappia ancora riconoscere il dolore – anche quello altrui, anche quello animale – come un fatto umano. Che non si misuri solo dal PIL, dalle alleanze strategiche o dalla potenza militare, ma da come protegge i più deboli. E tra i più deboli ci sono anche loro: le nostre sentinelle silenziose, fedeli fino all’ultimo respiro.