In tempi di crisi globali, le donne trasformano il diritto internazionale in potere reale: dai tribunali ai tavoli diplomatici, ogni norma applicata diventa strumento di giustizia e leadership strategica.
di Cristina Di Silvio e Annalisa Imparato
Leadership femminile tra tribunali, diplomazia e conflitti globali: norme internazionali trasformate in potere reale
Jean-Loup Charvet scrive che piangere è un modo di vedere, d’intendere, di amare. Non è debolezza: è rivelazione. È il punto esatto in cui la nostra umanità si scioglie e diventa limpida.
Allo stesso modo, l’ingresso delle donne nelle istituzioni internazionali, nella diplomazia e nella geopolitica rivela la dimensione reale della giustizia: non mera applicazione normativa, ma trasformazione sostanziale dei principi in diritto vivo.
Per secoli, il diritto internazionale è stato dominio maschile: tribunali, conferenze diplomatiche, trattati multilaterali, sale di potere costruite ignorando metà dell’umanità. Poi sono arrivate loro: donne che non chiedono permesso, donne che non conoscono compromessi, donne capaci di tradurre norme astratte in strumenti concreti di tutela e responsabilità.
La CEDAW (1979, ratificata dall’Italia con L. 132/1981) impone agli Stati obblighi precisi: eliminare ogni discriminazione (art. 2), trasformare ruoli e stereotipi di genere (art. 5) e riconoscere la vita privata delle donne come materia di diritto internazionale (art. 16). Questi principi dialogano con la Costituzione Italiana, art. 3, con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, art. 23, e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 14, creando un quadro vincolante a livello nazionale, regionale e internazionale.
La Convenzione di Istanbul (2011, ratificata in Italia con L. 77/2013) sancisce che la violenza di genere è violazione dei diritti umani (art. 3), impone obblighi di prevenzione, protezione e punizione (art. 12) e riconosce il diritto delle vittime a partecipare attivamente al processo di giustizia (art. 50).
Parallelamente, la Convenzione di Belém do Pará (1994), il Protocollo di Maputo (2003) e la Convenzione ASEAN contro la violenza sulle donne (2012) dimostrano come strumenti regionali traducano obblighi internazionali in applicazioni concrete, creando giurisprudenza vincolante nei rispettivi continenti.
La Risoluzione ONU 1325 (2000) ha sancito la partecipazione delle donne ai negoziati di pace (art. 4), la protezione dei civili e delle vittime di violenza sessuale (art. 6) e la leadership femminile nella prevenzione dei conflitti come obbligo internazionale, non facoltà (art. 8). In Italia, questi principi trovano applicazione nelle leggi 125/1991 e 119/2013, rafforzando la protezione delle donne e l’obbligo statale di prevenzione. Non è un’opzione. È obbligo internazionale.
Non si tratta solo di norme, ma di azioni concrete.

Le autrici durante un convegno. Da sinistra, la dott.ssa Annalisa Imparato, Magistrato in servizio alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, e la dott.ssa Cristina Di Silvio, esperta relazioni internazionali.
Julia Sebutinde, prima donna africana alla International Court of Justice, ha applicato la Carta ONU (artt. 1, 55, 56) e lo Statuto ICJ (artt. 2, 9, 38), fissando precedenti mondiali su tutela dei diritti fondamentali.
Nazhat Shameem Khan, ex Presidente del Consiglio ONU per i Diritti Umani e Deputy Prosecutor ICC, ha fatto rispettare lo Statuto di Roma (artt. 5–8, 17, 42) perseguendo genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, proteggendo le vittime e rafforzando la responsabilità degli Stati.
Fatou Bensouda e Navi Pillay, con casi come Prosecutor v. Gbagbo (ICC-02/11) e Prosecutor v. Jean-Pierre Bemba (ICC-01/05-01/08), hanno stabilito che la violenza sessuale sistemica e i crimini contro l’umanità costituiscono giurisprudenza vincolante a livello internazionale, applicando le Convenzioni di Ginevra (artt. 27, 76) e lo Statuto di Roma, integrando norme umanitarie, penali e procedurali.
Accanto alla giurisdizione, le donne hanno assunto ruoli chiave nella geopolitica e nella diplomazia internazionale.
Madeleine Albright, prima Segretaria di Stato USA, ha tradotto il diritto internazionale in strategie diplomatiche durante i conflitti balcanici; Susana Malcorra e Federica Mogherini hanno guidato la diplomazia europea, applicando trattati multilaterali in accordi operativi; Ngozi Okonjo-Iweala, alla guida dell’OMC, ha intrecciato diritto commerciale internazionale, sviluppo sostenibile e governance economica globale.In tempi di conflitti aperti in Ucraina, tensioni nel Medio Oriente, crisi umanitarie in Africa e migrazioni globali, questa leadership non è teoria: è necessità concreta.
Ogni norma è potere, ogni articolo è manifesto. Bello e diritto? Concetto superato. Fascino e capacità di guidare camminano insieme. Forbes e Fortune celebrano le loro carriere, ma ciò che conta è indipendenza. Nessun compromesso. Nessuna delega del merito.
Le decisioni di Julia Sebutinde, Xue Hanqin, Angela Furlanetto, Leila Zerrougui, Federica Mogherini, Susana Malcorra, Ngozi Okonjo-Iweala riscrivono regole, modificano interpretazioni di trattati, rafforzano i diritti delle vittime e garantiscono tutela dei minori, traducendo norme astratte in risultati concreti e vincolanti.
Oggi più donne nei tribunali internazionali, nei ministeri degli Esteri, nei corridoi della diplomazia e nei tavoli dei negoziati significa accesso reale alla giustizia, applicazione rigorosa dello Statuto di Roma, del Codice Penale Internazionale, delle Convenzioni di Ginevra, delle leggi italiane e dei protocolli regionali africani e latinoamericani, e riforma dei trattati secondo principi di equità globale.
Il potere non si concede: si costruisce. Non chiedono permesso. Lo scrivono. Chi osserva non può ignorarlo.
Così come il pianto di Charvet rivela la limpidezza della nostra umanità, la leadership femminile nel diritto internazionale e nella diplomazia rivela la limpidezza della giustizia e della politica. E cambia per sempre.