«La libertà è un dovere, prima che un diritto. È un dovere che va pagato con la solitudine, con la miseria, talvolta con la morte» , scriveva Oriana Fallaci. C’è un filo rosso che attraversa la storia. Non è un concetto astratto, né una metafora poetica. È il sangue.
di Cristina Di Silvio
Il sangue come sottile linea rossa tra gli eventi dell’umanità
Il sangue, quello vero, quello denso, appiccicoso.
Quello che scorre tra le crepe delle città distrutte, sotto le suole dei soldati, sulle scrivanie dei diplomatici.
Quello che oarte dalla spianata di Maratona, scivola lungo i bastioni di Masada, si inzuppa nei crateri di Verdun, affoga nel fango delle trincee, si aggrappa alle unghie dei bambini del Ghetto di Varsavia. Poi ricompare, oggi, nelle strade di Gaza, tra le braccia delle madri che stringono brandelli di uomo, brandelli di corpi che erano i loro figli.
Cambia l’epoca.
Cambia il lessico.
Cambiano le scuse e le accuse, ma non cambia la verità. Non cambia l’orrore.




Non c’è un solo secolo della nostra civiltà che non abbia chiesto, a un uomo o a una donna, di pagare con la vita il prezzo della parola.
Eppure, siamo ancora qui, nel 2025, a parlare di “incidenti collaterali”, di “danni strategici”, di “reazioni proporzionate”. Come se il cranio sbriciolato di un bambino potesse avere una giustificazione geopolitica. Come se la fame, la tortura, la deportazione fossero strumenti di pace.
Oggi la censura non ha più la faccia del gerarca. Ha il volto liscio di una piattaforma digitale. Ti sorride mentre ti spegne. Ti banna senza processo.Ti riduce il traffico. Ti taglia le gambe a colpi di “policy”, mentre nei talk show si dibatte se l’inferno sia una “narrativa”. I giornalisti che non si inginocchiano sono isolati, schiacciati, cancellati. I più fortunati ricevono una denuncia. I meno fortunati, un proiettile in testa, o una cella senza processo.
I loro nomi? Anna Politkovskaja; Jamal Khashoggi; Daphne Caruana Galizia; Shireen Abu Akleh; Julian Assange.
Ancora: Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra a 26 anni per aver scritto troppo.
Mino Pecorelli, giornalista assassinato in un’Italia che masticava segreti e sputava piombo.
Ma non solo i giornalisti sono alla ricerca di verità, loro la raccontano, la portano nelle case di tutti, ma non sono l’unica categoria che viene sistematicamente colpita, facilità, no, non lo è.
Franco Freda, giudice coraggioso, fatto saltare in aria per aver toccato verità scomode.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, magistrati che hanno guardato in faccia il potere e ne hanno pagato il prezzo.
Sono tutti nomi, vite, cadaveri lasciati come monito. Scrivi la verità e paghi. Questa è la regola non scritta, ma universale.
Come Salvo D’Acquisto, che si fece scudo umano per salvare 22 innocenti.
Come Jan Karski, che vide coi propri occhi i treni diretti ai campi e gridò al mondo che l’inferno esisteva già.
Come Anna Politkovskaja, gia ricordata perché freddata nell’ascensore della sua casa per aver osato raccontare la Cecenia.
Come chinque abbia scelto di non voltarsi dall’altra parte. Di non fingere. Di restare umano. Dove sono gli eredi del coraggio?
Dove sono oggi i Salvo D’Acquisto, che si alzano in piedi tra i colpevoli per gridare: “Sono io il responsabile”?
Dove sono i nuovi Jan Karski, che attraversano l’inferno per testimoniare che l’inferno esiste?
Dove sono i nuovi Zola, pronti a urlare “J’accuse” contro i padroni della menzogna?
Chi difende oggi i bambini palestinesi che dormono sotto le macerie, sepolti vivi accanto ai pupazzi?
Chi difende le donne yazide stuprate dai mercenari, mentre il mondo voltava la faccia perché “non era il momento”?
Chi difende i giornalisti congolesi assassinati a colpi di machete?
Gli attivisti afghani fatti saltare in aria?
I detenuti iraniani impiccati per aver cantato una canzone?
«Il sonno della ragione genera mostri» riporta a Francisco Goya, e noi?
Noi abbiamo costruito una civiltà che dorme profondamente, coccolata da Netflix e dal delivery. Mentre a Gaza, ogni dieci minuti, un bambino scompare. Non come concetto. Non come statistica. Scompare. Esplode. Brucia. Viene fatto a pezzi.
Nel 1943, chi raccontava Auschwitz era una spia.
Nel 2025, chi racconta Gaza è un “propagandista”.
Nel 1975, chi denunciava il golpe di Pinochet in Cile era un sovversivo.
Nel 2025, chi osa denunciare l’Iran è ancora un sovversivo.
Chi punta il dito contro l’Arabia Saudita, invece, è un “disturbatore degli equilibri diplomatici”.
Il crimine è identico: dire la verità. Ciò che cambia è solo il colore della bandiera a cui conviene mentire. Cambiano le parole.
L’accusa resta: dare fastidio. Disturbare l’ordine. Mostrare il volto del potere quando si toglie la maschera.
Eppure, la verità non si trattiene. Preme. Esplode. Cerca bocche aperte e mani sporche di inchiostro. Cerca avvocati che non accettano sentenze scritte prima del processo. Giornalisti che non si lasciano addomesticare. Intellettuali che non temono l’ostracismo dei festival letterari. Non basta più raccontare. Serve resistere. Oggi non serve lo scrittore elegante. Serve il corpo che trema sotto le bombe. Serve la penna che sanguina sul campo. Serve il cronista che strappa la verità ai denti dell’inferno.
Chi si oppone, oggi, è solo. Come sempre. Ma è proprio in quella solitudine che nasce la dignità. Perché mentre il mondo firma memorandum, accordi, patti e trattati…i bambini continuano a morire. E nessuno — dico, nessuno — dovrebbe morire sotto il sole con la bocca piena di polvere e gli occhi pieni di paura.
Mai più, dicevano nel ’45.
Mai più, scrivevamo davanti ai lager, e invece è ancora. È adesso. È ovunque.
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.» Primo Levi: Conoscere. Sapere.
Non basta più descrivere. Bisogna ferire. Ferire l’indifferenza. Ferire la retorica. Per le coscienze ancora accese. Per chi non si accontenta. Per chi non si arrende.
Per chi ha capito che la verità non chiede il permesso. La verità rompe. Divide. Distrugge. Ma libera.