C’è un tempo che si frantuma senza far rumore. Un tempo che si scioglie come neve sotto il sole d’agosto. Un nome dimenticato, un volto sfocato, una carezza che non riconosce più la pelle da accarezzare, è la memoria che si perde. È il 21 settembre. Giornata Mondiale dell’Alzheimer.
di Cristina Di Silvio
Una brutta bestia vivere senza memoria
Mentre il mondo corre verso guerre, algoritmi, pareti sempre più alte e cuori sempre più chiusi, milioni di persone stanno silenziosamente scomparendo da dentro.
Non muoiono. Si scolorano. Come fotografie lasciate troppo a lungo al sole.
L’Alzheimer è una malattia. Ma anche una condanna sociale. Non è solo un deficit cognitivo. È una dissoluzione lenta, crudele, selettiva. Non toglie tutto insieme: prima cancella le parole, poi i gesti, poi i nomi. Alla fine, resta solo il corpo, e anche quello diventa estraneo. Chi guarda da fuori vede solo la superficie: una persona confusa, ripetitiva, persa. Chi vive da dentro, vede un naufragio.
Giorno dopo giorno. Chi assiste, chi ama, chi resta — vive un lutto senza funerale. E nel frattempo, in una società che premia la performance, la velocità, la lucidità, l’autosufficienza…essere malati di Alzheimer significa essere fuori dal mondo. E quindi, fuori dalla dignità.

Il corpo sociale ha la memoria corta
Nel frastuono geopolitico globale, nella corsa a nuovi confini, nuovi nemici, nuove intelligenze artificiali, nuove identità da difendere o distruggere… ci dimentichiamo dei dimenticati.
“L’Alzheimer è una pandemia invisibile,” afferma il neurologo argentino Dr. Facundo Manes, “che avanza silenziosa nelle case e nelle menti, ma non trova la stessa urgenza che si riserva ad altre crisi sanitarie.” E non è un problema solo delle grandi città occidentali. Nei paesi in guerra, nei campi profughi, nei villaggi senza accesso ai servizi sanitari, l’Alzheimer assume contorni ancora più spietati. Come si cura chi perde la memoria, se intorno non c’è nemmeno l’elettricità per conservare le medicine
Dimenticare in terre già dimenticate
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre il 60% delle persone con demenza vive nei paesi a basso e medio reddito. Eppure, lì, l’accesso a diagnosi precoci, terapie, supporto psicosociale è quasi nullo. In Siria, nello Yemen, in Sudan, in Ucraina… la priorità è sopravvivere alla guerra, non alla perdita del sé “Ci sono pazienti che vagano tra le macerie, confusi, etichettati come folli. Non si sa che è Alzheimer,” racconta Maysa Al-Khatib, infermiera volontaria al confine turco-siriano.
“Non hanno un nome, né una cartella clinica. Solo sguardi vuoti, che nessuno più incontra.” In queste zone dimenticate, la malattia neurodegenerativa diventa sinonimo di abbandono, stigma, solitudine estrema.
Non c’è cura. Non c’è comprensione. Non c’è nemmeno la possibilità di ricordare ciò che si è perso: un villaggio distrutto, un figlio morto sotto le bombe, un amore che il cervello rifiuta di richiamare.
La cura è amore che resiste anche nell’assenza
Eppure, la malattia racconta l’umano.
Lo ricorda, nel suo stesso oblio. Perché l’Alzheimer ci costringe a ripensare tutto.
Cos’è una persona, se non ricorda più chi è?
Cos’è l’identità, se si dissolve nella nebbia?
Cos’è la cura, se non può più restituire nulla?
Cos’è l’amore, se non è riconosciuto?
Chi accompagna un malato lungo il cammino dell’Alzheimer è uno dei testimoni più puri dell’amore incondizionato.
Un amore che resiste al tempo, anche quando il tempo non resiste più.
“C’è una poesia nascosta anche nella confusione,” afferma la geriatra Dra. Ana María González, che lavora nelle periferie di Bogotá.
“Quando una madre ti guarda e ti chiama con il nome di sua sorella, non è sbagliata: è solo lì dove si sente ancora al sicuro.”
Non bastano le giornate mondiali. Serve una rivoluzione culturale. Non bastano fondi. Non bastano campagne. Non bastano i fiocchi viola o i post sui social. Serve una rivoluzione culturale.
Dove la fragilità sia riconosciuta come parte essenziale dell’essere umano.
Dove la lentezza sia un tempo da abitare, non da fuggire.
Dove la cura non sia vista come debolezza, ma come forza collettiva.
Dove la memoria sia un diritto, non un lusso. E serve farlo ovunque: nei centri di assistenza avanzata del Nord Europa e nei villaggi di fango senza farmaci. Perché la dignità non può essere geografica. Non può dipendere da dove sei nato, o da quanto puoi pagare.
Perché l’Alzheimer ci riguarda tutti
Non è una malattia degli altri. Non è un destino lontano. È un’ipoteca sulla nostra umanità. In un mondo che dimentica i suoi anziani, i suoi poveri, i suoi malati…l’Alzheimer è la metafora crudele di ciò che stiamo diventando.
Ed è anche un avvertimento.
E allora oggi, 21 settembre, fermiamoci davvero. Guardiamo negli occhi chi non può più guardarci con lucidità. Stringiamo la mano a chi la stringe per riflesso, non per scelta.
Diamo voce a chi non può più parlare. E non per pietà. Ma per giustizia. Per verità. Perché la memoria di chi dimentica, oggi, la dobbiamo portare noi.
Con rispetto. Con forza. Con tenerezza.
E con la rabbia lucida di chi non accetta che la fragilità venga messa ai margini. Non più.
Nel silenzio della memoria, restiamo. Presenti. Fino all’ultimo ricordo.