Sottufficiale dell’Esercito finisce in un incubo giudiziario che termina grazie alla caparbietà del suo legale
Quella del Luogotenente R.P., già in servizio presso la Scuola di Cavalleria di Lecce, caserma Zappalà, è una vicenda giudiziaria, magari come tante, ma che merita, però, di essere raccontata sia per la singolarità della genesi che, soprattutto, per le modalità di conduzione delle indagini, sostanziatisi in una ricerca delle fonti di prova (poi rivelatesi inconsistenti e fumose) attraverso un metodo investigativo anomalo e poco rispettoso delle più elementari norme del codice di rito.
Se nel caso che ci impegna non può parlarsi di mala giustizia è solo perché all’esito del calvario patito dal Peccarisi il Tribunale che lo giudicava, alla fine di un lungo iter processuale, ne riconosceva l’innocenza.
L’odissea inizia nel 2019 su impulso della Compagnia Carabinieri di Lecce, deus ex machina delle investigazioni.
Si legge, invero, nelle informative di reato della P.G., che lo spunto investigativo sarebbe partito da una fonte anonima nel giugno del 2019, circostanza di per sé plausibile se non fosse che già da diverso tempo prima (fine maggio 2019) la P.G., di propria iniziativa (!?!), iniziava, inspiegabilmente, a pedinare il luogotenente, senza alcuna apparente ragione.
Senza contare che né in sede di indagini, né successivamente (nel corso del processo) si riusciva a comprendere l’oggetto delle confidenze della fonte anonima né l’identità della stessa, apparsa, chiaramente, come un mero pretesto per iniziare un’indagine illegittima e del tutto gratuita ai danni del militare dell’Esercito.
Non solo, ma le successive investigazioni, tese a riscontrare una discutibile ipotesi di peculato (poi sconfessato dalle risultanze stesse delle indagini), si sostanziavano in un’attività di acquisizione documentale (presso la caserma Zappalà) del tutto opinabile (a tacer d’altro!) essendo avvenuta all’insaputa del luogotenente (fino ad allora in servizio presso la caserma stessa) e basatasi su un vero e proprio saccheggio non autorizzato di atti e documenti in originale, nonostante la delega del P.M. autorizzasse l’acquisizione in copia autentica.

Per tacere della discutibile necessità di acquisire, come di fatto avveniva, il traffico telefonico relativo alle utenze mobili del sottufficiale, necessità non emersa dalle precedenti investigazioni e che, al contrario, palesava un’ingerenza nella sfera privata dell’indagato del tutto gratuita e per meri fini esplorativi (!?!).
Dopo aver, comunque, significativamente scremato le iperboliche contestazioni della P.G. – che, all’esito delle indagini, aveva ipotizzato la commissione da parte dell’indagato di molteplici reati (falso, truffa, peculato, violata consegna, ecc.) – il P.M., nonostante la fumosità del materiale probatorio e, soprattutto, la discutibilità del metodo investigativo adottato, chiedeva il rinvio a giudizio del sottufficiale, ipotizzando la commissione da parte del medesimo, dei reati di truffa militare, consistenti nell’aver falsamente attestato (nel memoriale di servizio) dei servizi ordinari e straordinari mai espletati, traendone un ingiusto vantaggio economico.
Il Gup accoglieva la richiesta.
Rinviato a giudizio, nel dibattimento svoltosi davanti al Tribunale Militare di Napoli e durato più di due anni, com’era facilmente prevedibile sin dal principio, il materiale probatorio evaporava inesorabilmente, rivelandosi inconsistente e inidoneo, in radice, a provare le ipotesi di reato contestate, apparse, sin da subito, fantasiose e basate sul nulla.
Il Tribunale, invero, con motivazione puntuale assolveva l’imputato con la formula più ampia (perché il fatto non sussiste), non mancando di evidenziare l’inconsistenza delle prove portate dalla pubblica accusa e valorizzando, di contro, le argomentazioni difensive – sostenute dal difensore, avv. Domenico Albanese di Napoli – tese a dimostrare la fallacità delle ipotesi accusatorie e la non colpevolezza dell’imputato, sebbene, nel corso del processo, durante l’istruttoria, il Tribunale stesso rigettava le censure difensive afferenti il metodo di ricerca della prova (in sede di indagini), così ritenendo legittimo l’operato della P.G..
Ci si sarebbe aspettati, da parte del Tribunale, oltre che l’assoluzione dell’imputato (puntualmente arrivata), anche una chiara e netta stigmatizzazione (che non vi è stata) del metodo investigativo della Polizia Giudiziaria apparso, con estrema chiarezza, poco ortodosso e scarsamente fedele alle norme e ai principi garantisti che regolano tale fase del processo penale, nella quale dovrebbero essere concretamente assicurate, sempre, le garanzie previste dal codice di rito in favore dell’indagato, non essendo tollerabile alcuna violazione delle stesse.
Sotto tale profilo, forse, si è persa un’occasione!
In definitiva, pur compiacendosi dell’esito del processo, rimane l’amaro in bocca nel prendere atto che l’unico risultato ottenuto da un’indagine che non sarebbe mai dovuta nascere è stato quello di sottoporre ad un lungo calvario giudiziario (ben cinque anni!), R.P., Luogotenente di specchiato servizio che nel corso della sua lunga carriera era stato insignito di numerosi elogi da parte dei suoi superiori e si era distinto per la sua professionalità, correttezza e umanità (come attestato, in dibattimento, da testimoni referenziati).
Il difensore Avv Albanese Domenico del foro di Reggio Calabria, esperto di diritto militare:
“Sono soddisfatto dell’esito di questo processo, frutto di un lavoro intenso e di un’analisi approfondita delle prove. È stata riconosciuta la correttezza delle nostre argomentazioni e il diritto del mio assistito a vedere affermata la propria innocenza. Questa sentenza rafforza la fiducia nella giustizia e nel valore delle garanzie difensive.”
Informativa con fonte anonima, indagine sbagliata e calvario per un sottufficiale dell’Esercito. Grazie al suo avvocato l’incubo è finito

