…forse, considerando che ancora oggi le idee al gabinetto di guerra non sono proprio chiarissime e i vertici militari non vogliono occupare Gaza, né per vendetta né per opportunità (principalmente).
di Cristina Di Silvio
Gaza strip occupata? Vendetta fine a se stessa
“Poiché il giorno della vendetta è nel mio cuore, e l’anno del mio riscatto è venuto.” Isaia 63:4
Il 5 agosto 2025 rappresenta una data cruciale nella lunga e complessa storia del conflitto israelo-palestinese.
Si è superata una sottile soglia, forse impercettibile oggi, data la conflittualità in essere: si parla liberamente di occupazione della Striscia, non è più un tabù, non è più una negazione del diritto internazionale e una violazione di trattati o di alterazione degli equilibri regionali.
No, nulla di tutto questo perché oramai Gaza sembra essere avulsa al diritto internazionale, un limbo dove non ha nessun valore.
Non si tratterebbe più di un’operazione militare temporanea o di una risposta circoscritta a un attacco, bensì di una ridefinizione radicale dello spazio operativo, della strategia e della narrazione stessa del conflitto.
Infatti: i vertici militari e dei servizi non propendo per questa opzione, l’occupazione della striscia implicherebbe un cambio di approccio radicale a fronte di truppe stanche, demotivate, e che prescindendo dalla sete di vendetta post pogrom del sette ottobre, evidenzia un crollo dell’intelligence.
L’Operazione “Gideon’s Chariots”, che richiama la figura biblica di Gedeone, il profeta guerriero che guidò Israele contro i Madianiti, si inscrive in una logica di annientamento sistemico e controllo totale del territorio, con l’obiettivo dichiarato di smantellare ogni residua capacità organizzativa e militare di Hamas, sostituendo il governo de facto della Striscia con un’amministrazione militare diretta e prolungata.
Questa decisione segna un ritorno a una dottrina di guerra totale, nella quale la distinzione tra civile e combattente si sfuma fino a scomparire, generando una condizione di asfissia sociale, politica e umanitaria. Le quattro divisioni d’élite dell’IDF impiegate nell’operazione, con l’appoggio di una complessa rete di intelligence e tecnologia, operano secondo una dottrina di contro-insurrezione urbana che si ispira alle esperienze americane in Iraq e Siria, ma che qui assume un carattere ancora più radicale, incentrato sulla distruzione delle infrastrutture vitali, sulla creazione di “zone sterili” e sulla dislocazione forzata della popolazione civile verso il sud della Striscia.
I vertici militari sono ponderati la politica no

La nuova linea strategica che va delineandosi non è condivisa da tutti gli esponenti dell’establishment israeliano. Il capo di Stato Maggiore, generale Eyal Zamir, ha espresso forti riserve, evidenziando come l’operazione comporti rischi militari e umani gravissimi, tra cui la possibile morte degli ostaggi ancora detenuti da Hamas e il rischio di un logoramento psicologico profondo delle truppe impegnate in combattimenti urbani estremamente complessi e pericolosi.
Dal punto di vista politico, la mossa di Netanyahu appare come un’azione disperata volta a consolidare una coalizione governativa sempre più fragile, ma al contempo rischiosa, in quanto potrebbe compromettere irreversibilmente la legittimità morale e la posizione diplomatica di Israele a livello internazionale, stante – almeno fino a ora – godere della copertura pressoché totale degli USA.
L’elemento religioso e simbolico dell’operazione è tutt’altro che secondario. Il richiamo a Gedeone evoca una narrazione messianica e identitaria, in cui la guerra si configura come una missione sacra, una redenzione nazionale inscritta nelle radici bibliche di Israele. Questa dimensione sacralizza il conflitto, giustificando sul piano ideologico una linea di condotta che in altri contesti sarebbe considerata inaccettabile, e tuttavia si scontra frontalmente con il diritto internazionale umanitario, che tutela i civili e vieta pratiche quali l’espulsione forzata e la distruzione indiscriminata di infrastrutture civili.
Le denunce delle Nazioni Unite e le accuse di possibili crimini di guerra inseriscono infatti l’operazione israeliana in un quadro di tensioni legali e morali che difficilmente si risolveranno senza un pesante tributo umano e politico.
In questo senso Gaza si configura come un vero e proprio laboratorio strategico della guerra ibrida del XXI secolo, un campo di battaglia multilivello in cui si combatte non solo sul terreno militare, ma anche nel campo della comunicazione e della percezione globale. La guerra delle immagini, con la sua capacità di influenzare l’opinione pubblica mondiale in tempo reale, diventa uno degli aspetti più delicati per Tel Aviv, chiamata a gestire una crisi di immagine permanente e globale.

Ogni video, ogni fotografia di bambini denutriti o di quartieri ridotti a macerie si trasforma in un’arma potente nelle mani dei sostenitori di entrambe le parti, mentre sul terreno le linee tra giusto e sbagliato, tra legittima difesa e sopraffazione, si fanno sempre più indistinte.
L’impatto di questa escalation si estende ben oltre i confini di Israele e Gaza, coinvolgendo direttamente attori regionali e globali.
L’Iran, tradizionale sponsor di Hamas e dei gruppi armati palestinesi, osserva con crescente interesse e allarme, valutando ogni mossa israeliana come una sfida diretta al proprio ruolo di potenza regionale.
Hezbollah in Libano, fedele alleato di Teheran, potrebbe reagire con un’escalation lungo il confine settentrionale, rischiando di trasformare la crisi in un conflitto multilaterale su più fronti.
L’Egitto, pur mantenendo una posizione ufficiale di mediazione, vede nell’occupazione totale di Gaza una minaccia alla stabilità della propria frontiera nordorientale e teme ripercussioni sul proprio fragile equilibrio interno, specie nel Sinai. A livello globale, la Russia e la Cina, pur condannando ufficialmente ogni escalation, vedono nel conflitto una leva per rafforzare la propria influenza nella regione, utilizzando la crisi per mettere in discussione il ruolo degli Stati Uniti e degli alleati occidentali nel Medio Oriente e promuovere una nuova architettura geopolitica multipolare.
Entrambi i paesi stanno già proponendo tavoli alternativi di negoziazione e sostegno logistico ai paesi arabi che intendono opporsi alla strategia israeliana, rafforzando così le dinamiche di contrapposizione sistemica tra blocchi. Questa complessa rete di interessi e tensioni rende l’operazione israeliana non soltanto un fatto militare, ma un vero e proprio test strategico per l’intero sistema di equilibri internazionali, in cui ogni mossa rischia di innescare una reazione a catena dalle conseguenze difficilmente prevedibili.
In definitiva, l’occupazione totale della Striscia di Gaza rappresenta non solo un cambiamento di paradigma per Israele, ma una sfida cruciale per la comunità internazionale. È una guerra che mette alla prova i confini del diritto, della morale e della politica, in cui si confrontano antiche narrazioni religiose e moderne dottrine militari, e in cui la posta in gioco è il futuro di una regione martoriata da decenni di conflitti.
Il 5 agosto 2025 segna l’inizio di un capitolo che difficilmente potrà essere dimenticato o ignorato, una pagina di storia scritta con il sangue e la sofferenza di milioni di civili, e che richiederà riflessioni profonde su cosa significhi, oggi, fare la guerra e amministrare la pace.