Nel cuore dell’agosto artico, nella cornice apparentemente neutra e dimenticata di Anchorage, in Alaska, si è consumato un incontro destinato a entrare nella storia non per ciò che è stato pronunciato, ma per ciò che è stato sottinteso. Donald Trump, presidente in carica degli Stati Uniti, e Vladimir Putin si sono riuniti ufficialmente per discutere della “stabilità euroasiatica”, ma ciò che realmente è avvenuto tra le mura blindate della base aerea Elmendorf-Richardson ha il sapore amaro di una riconfigurazione strategica silenziosa, eppure profondissima.
di Cristina Di Silvio
Bye bye Occidente, il “ritorno” degli USA con Trump
A poche miglia dalla pista dove i caccia F-22 Raptor della 3rd Wing sorvegliano senza sosta i cieli artici contro le incursioni russe, il capo della Casa Bianca ha discusso con lo zar del Cremlino una riscrittura brutale dell’equilibrio globale.
Non un vertice, ma un segnale. Non una trattativa ufficiale, ma una ridefinizione clandestina dell’ordine internazionale.
Nessuna immagine, nessun comunicato; solo silenzi densi e fughe di notizie. Tuttavia, fonti autorevoli vicine allo USSTRATCOM hanno confermato: la delegazione russa è arrivata con una proposta precisa, elaborata da mesi nei corridoi opachi del GRU e dell’SVR, pronta per essere offerta a un interlocutore apertamente ostile all’ortodossia atlantica.
La proposta è cristallina: cessate il fuoco immediato, riconoscimento tacito della Crimea come territorio russo, autonomia amministrativa permanente alle entità separatiste del Donbas sotto la supervisione di osservatori “neutrali”, ovvero non appartenenti alla NATO. In cambio, una neutralità attiva per Kiev: nessuna adesione all’Alleanza, nessuna base militare occidentale, nessun supporto offensivo continuativo.
Mosca ha ribattezzato questa formula “Finlandia armata”, ma la definizione è ingannevole: ciò che si prospetta è un’Ucraina militarmente abile ma geopoliticamente castrata, sospesa in un limbo operativo perenne, pronta a esplodere al primo attrito.
Un modello già sperimentato sul terreno: nei poligoni di Rostov, dove nei mesi scorsi le forze russe hanno testato i droni kamikaze Lancet-4, capaci di eludere i sistemi di guerra elettronica NATO, e nelle esercitazioni simulate a Mulino, dove unità combinate russo-bielorusse hanno simulato un’incursione rapida oltre il Dnipro.

La proposta di Mosca non è una mano tesa, ma una trappola strategica, confezionata per sembrare ragionevole a chi concepisce la pace non come equilibrio di giustizia, ma come merce negoziabile. Trump, secondo fonti riservate del National Security Council, non ha formalmente accettato né rigettato. Ha ascoltato, ponderato e — cosa più significativa — non ha escluso. Il suo approccio, pragmatico fino al cinismo, è ben noto: ideologia zero, solo interessi. Per lui, l’alleanza è un contratto a tempo determinato; la solidarietà strategica, una voce di bilancio.
E l’integrità territoriale non è un dogma, ma una variabile dipendente dalla convenienza. In quest’ottica va interpretata l’affermazione che ha sconvolto le cancellerie europee: “Zelensky può porre fine alla guerra in ventiquattr’ore, se lo desidera davvero.”
Non è soltanto un colpo di teatro verbale, ma l’annuncio di un cambio di paradigma. In questa narrazione, il conflitto non oppone più aggressore e aggredito, ma chi vuole la pace e chi la ostacola. L’aggressore viene razionalizzato, la vittima colpevolizzata. L’Ucraina, da bastione della libertà, si trasforma in ostacolo alla stabilità.
La risposta europea è giunta rapida, ma non necessariamente incisiva. Il 18 agosto, a Washington, si è svolto un vertice straordinario con le figure chiave dell’architettura euro-atlantica. Al centro, Volodymyr Zelensky, affaticato ma determinato. Attorno a lui: Ursula von der Leyen, Keir Starmer, Alexander Stubb, Emmanuel Macron, Giorgia Meloni, Friedrich Merz, Mark Rutte — e, beffardamente, lo stesso Trump.
L’immagine ufficiale, con lo spazio tra Zelensky e Trump ridotto al minimo, racconta più del comunicato congiunto.

I sorrisi sono formali, le distanze sostanziali. L’Occidente è smarrito, non diviso tra Europa e America, ma fratturato al proprio interno. Von der Leyen, senza competenza esecutiva in materia estera, ha ribadito l’impegno europeo per la ricostruzione di Kiev. Stubb, presidente della Finlandia, ha lanciato l’allarme più lucido: “Ogni concessione oggi è un’aggressione domani.”
È Yalta, senza nominarla. Lo spettro del 1945 è ovunque, ma questa volta senza Churchill né Roosevelt, con due egemoni fuori dagli schemi.
Macron ha invocato un sistema di garanzie europeo autonomo ma integrato nella NATO. Rutte ha gelato tutti: “La deterrenza non si dichiara. Si dispiega.” Intanto, fonti interne alla NATO riferiscono che, nell’ambito dell’aggiornamento del piano d’emergenza Iron Sentinel, il Comando Supremo Alleato in Europa (SHAPE) sta valutando il dispiegamento di brigate multinazionali permanenti in territorio ucraino entro il 2027. Una misura estrema, ma tra le poche realisticamente percorribili.
Zelensky, secondo testimoni presenti al vertice, ha pronunciato uno dei discorsi più intransigenti della sua carriera diplomatica. Ha rievocato il Memorandum di Budapest, l’accordo tradito in cui l’Ucraina rinunciò al terzo arsenale nucleare del mondo in cambio di vaghe promesse di protezione. Ha chiesto garanzie scritte, operative, verificabili.
Sicuramente il clima è differente rispetto al primo vertice tra le leadership USA e Ucraina, cui poi ha fatto seguito il “bilaterale” a latere delle esequie del Santo Padre, a Roma.
Zelensky ha ammonito: “Un’intesa siglata alle nostre spalle equivale a una dichiarazione di guerra diplomatica.” Non è retorica. I suoi generali lo sanno bene: senza sostegno occidentale, la capacità offensiva delle brigate meccanizzate ucraine si dimezzerà entro sei mesi. Le scorte di ATACMS sono prossime all’esaurimento, i Leopard 2A6 necessitano di componenti irreperibili localmente, i sistemi IRIS-T sono stati ridislocati per proteggere gli impianti critici lungo il Dnipro. L’autunno si preannuncia operativo e fragile, un gioco ad alto rischio giocato sul filo delle linee logistiche.
Ma il vero punto critico non è logistico, bensì politico.
La frattura più profonda si consuma all’interno degli Stati Uniti: da un lato, la dottrina Biden, fondata su multilateralismo, difesa collettiva e leadership condivisa; dall’altro, la visione trumpiana, ancorata a potere diretto, accordi bilaterali e logiche di spartizione.
È la rinascita di un mondo pre-ONU, regolato da intese tra potenze più che da norme condivise.
Se Trump dovesse consolidare il suo secondo mandato, l’Europa si troverebbe di fronte a una scelta esistenziale: seguire il disimpegno statunitense o costruire finalmente una propria architettura di sicurezza, autonoma, interoperabile e credibile. Ma sicurezza significa deterrenza, e la deterrenza esige capacità.
Al momento, l’Europa possiede più ambizioni che strumenti. Zelensky ha lasciato Washington con attestati di stima ma privo di garanzie concrete. Trump non ha smentito nulla, né sembra intenzionato a farlo. La NATO resiste, ma sotto stress crescente.
E mentre i fronti ucraini continuano a tremare, e i droni russi — equipaggiati con tecnologia stealth a firma iraniana — sorvolano la regione di Zaporizhzhia eludendo ogni tracciamento radar, la domanda diventa ineludibile: esiste ancora la possibilità di un ordine globale fondato sul diritto?
O siamo già entrati nell’era delle geometrie brutali, in cui le decisioni non spettano più al diritto, ma alla forza? La vera linea del fronte, oggi, non si trova a Kharkiv. È tracciata nella mente dei decisori occidentali, nelle stanze dove si determina se l’Ucraina sia ancora un alleato strategico o un peso da contenere. Dove si stabilisce se l’Europa possa ancora definirsi potenza o resti soltanto un’idea. E se il futuro sarà scritto — ancora una volta — dalla diplomazia… o dalla forza.