La sicurezza selettiva: quando l’Europa sceglie chi può esistere

di Cristina Di Silvio

La sicurezza selettiva è diventata il nuovo paradigma: chi decide chi può esistere davvero? Perché non si discute mai di Daryali nelle conferenze europee, mentre si parla di investimenti e ricostruzione? Magari non si daranno, qui, delle risposte, ma almeno si pone la domanda, per riflettere, per ripensare un certo argomento con altra verticale

Sicurezza e politiche europee

Quante vite sono diventate meri numeri invisibili nelle stanze dove si decidono le politiche europee? Chi sono quei 400 cittadini ucraini deportati, bloccati da mesi al checkpoint di Daryali, condannati a vivere in condizioni disumane senza acqua potabile, senza cure mediche, senza protezione? Cosa significa per l’Europa lasciare che uomini, donne e bambini dormano sul cemento, con lo sguardo perso nel vuoto e la dignità calpestata?

Eppure, nessun ministro li nomina.

Nessuna istituzione europea li tutela. Perché? Il diritto internazionale non lascia spazio a dubbi e pur sempre di sicurezza si tratta, considerando come la Moldavia rischia di essere nelle “mire espansionistiche Russe” e di come l’arma migrazione possa essere impattante quale arma non convenzionale.

Ma si diceva, poco prima, del diritto internazionale, in quale misura affronta questa materia, sicuramente di rilievo per le politiche di sicurezza comunitarie?

La Convenzione di Ginevra del 1951, vincolante per tutti gli Stati membri UE, sancisce il principio inderogabile del non-refoulement, vietando il respingimento di persone esposte a rischi concreti di persecuzione o danno irreparabile (art. 33).

L’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) impone un divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti, anche in contesti extraterritoriali.

L’articolo 12.4 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR) garantisce il diritto di ogni individuo a rientrare nel proprio Stato di cittadinanza.

Tali norme sono considerate norme imperative (jus cogens), non derogabili neppure in situazioni di emergenza. Come ricordava Hannah Arendt, riflettendo sulle responsabilità individuali nel contesto delle crisi politiche: «Il male assoluto non è mai il prodotto di un mostro, ma della banalità del male: la capacità di chiunque di obbedire a ordini e ignorare la sofferenza altrui».

sicurezza selettiva ue caso moldavia

Quanti attori istituzionali stanno esercitando oggi questa “banalità”, permettendo che migliaia di esseri umani vengano esclusi dalla protezione giuridica?

La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in casi come M.S.S. c. Belgio e Grecia (2011) e N.D. e N.T. c. Spagna (2020), ha più volte riaffermato che il respingimento verso condizioni di pericolo costituisce una violazione dell’articolo 3 CEDU, anche se attuato indirettamente tramite la creazione di ostacoli procedurali o limiti amministrativi al diritto di accesso al territorio e a un ricorso effettivo (art. 13 CEDU).

Questi precedenti chiariscono che gli Stati non possono sottrarsi alle loro responsabilità nascondendosi dietro “tecnicismi” o procedure amministrative opache. Le Linee Guida dell’UNHCR sulle migliori pratiche per la gestione dei rimpatri forzati sottolineano l’obbligo di garantire condizioni dignitose, accesso a informazioni legali, protezione specifica per categorie vulnerabili e monitoraggio indipendente delle condizioni di detenzione o transito. La situazione a Daryali viola sistematicamente questi standard, esponendo i deportati a un rischio concreto di sofferenze evitabili e negando loro la possibilità di tutela.

A Daryali, però, queste norme vengono sistematicamente aggirate tramite un’articolata strategia di gestione del confine basata sulla creazione di zone grigie di responsabilità. La Moldavia, Stato candidato all’UE, esercita una chiusura de facto del transito senza dichiarazioni ufficiali, evitando così procedure di valutazione individuale del rischio e violando il diritto di accesso a un ricorso effettivo (art. 13 della CEDU).

Questa prassi, seppur priva di una dichiarazione formale, configura un respingimento indiretto, che secondo la giurisprudenza della Corte Europea costituisce una violazione del divieto di trattamenti inumani e dell’obbligo di tutela. È dunque evidente come si stia perpetrando un sistema di “sicurezza selettiva” che, sfruttando ambiguità procedurali e lacune normative, legittima il respingimento sistematico senza assunzione di responsabilità, minando alla base i principi fondamentali dell’ordinamento internazionale e del diritto europeo. Questo paradigma si pone in aperto contrasto con la dichiarata politica europea di promozione dei diritti umani e rappresenta una ferita profonda al sistema multilaterale. Come può una comunità che si definisce europea tollerare che cittadini bloccati in un limbo giuridico non abbiano accesso a nessuna forma di tutela, non possano chiedere aiuto legale, e siano privati persino dei servizi sanitari minimi? È questo il rispetto per la dignità umana di cui parliamo nelle nostre dichiarazioni pubbliche?

Quando i diritti umani si piegano all’arbitrio politico, che Europa stiamo costruendo? Una Europa di valori o una Europa di interessi? E se la risposta è la seconda, quale futuro ci attende? Perché la sicurezza che esclude è solo un’illusione, e un’Europa che sceglie chi può esistere perde la sua stessa ragion d’essere. Fino a quando rimarremo spettatori muti di questa tragedia giuridica e umana?