La parata militare svoltasi a Pechino per l’80º anniversario della vittoria sulla Giappone imperiale non è stata una semplice commemorazione storica, ma una messa in scena strategica calibrata con precisione chirurgica, tanto nei contenuti quanto nella forma.
di Cristina Di Silvio
La Parata militare per una vittoria mai accaduta sul Giappone
Il passaggio dalla diplomazia misurata del vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO), tenutosi a Tianjin, al trionfalismo muscolare di Piazza Tiananmen è avvenuto senza soluzione di continuità, segnando un cambio di registro tanto improvviso quanto eloquente
Da un lato, dichiarazioni multilaterali sull’integrazione eurasiatica e gesti di apertura politica; dall’altro, una dimostrazione plastica di potenza, scandita da colonne di carri armati, droni autonomi, assetti missilistici ipersonici e piattaforme nucleari tattiche. Due linguaggi diversi, ma armonizzati all’interno di una narrativa unitaria: quella di una Cina pronta a ridefinire gli equilibri globali secondo i propri paradigmi
Al centro della scena, Xi Jinping ha interpretato il ruolo di architetto geopolitico, costruendo un discorso in cui la memoria storica si fonde con l’ambizione imperiale. Dalla tribuna della Porta di Tiananmen, sotto lo sguardo austero di Mao Zedong, il presidente ha definito l’Esercito Popolare di Liberazione una “forza eroica”, chiamata oggi a “salvaguardare con risolutezza la sovranità nazionale, l’unità e l’integrità territoriale”, alludendo senza ambiguità alla questione di Taiwan.

La retorica patriottica si è così fusa con la proiezione di potenza militare, in un’operazione di comunicazione strategica rivolta a un doppio pubblico: l’opinione pubblica domestica, da galvanizzare, e gli interlocutori internazionali, da dissuadere. La scenografia – accuratamente orchestrata – non ha lasciato nulla al caso: l’ordine dei mezzi, la selezione degli ospiti, i tempi della narrazione, tutto è stato concepito per veicolare un messaggio chiaro e coerente. La presenza di leader come Vladimir Putin, Kim Jong-un, Masoud Pezeshkian (Iran), Aljaksandr Lukashenko (Bielorussia) e Min Aung Hlaing (Birmania) ha trasformato la parata in un congresso informale delle potenze revisioniste. Non una piattaforma inclusiva, bensì una vetrina selettiva, destinata a tracciare una nuova linea di frattura nella geopolitica globale.

L’assenza quasi totale di rappresentanti occidentali – eccezion fatta per il premier slovacco Robert Fico e il presidente serbo Aleksandar Vučić, entrambi critici delle politiche euro-atlantiche – ha rafforzato la natura polarizzante dell’evento. Rilevante anche la scelta di Narendra Modi di non partecipare, nonostante la presenza al vertice SCO: segno tangibile delle tensioni latenti tra Nuova Delhi e Pechino, alimentate da dispute territoriali e rivalità per l’egemonia nel Sud globale.
Dal punto di vista tecnico-militare, la parata ha rappresentato la sintesi visiva dell’evoluzione dottrinale dell’Esercito Popolare di Liberazione. In mostra una generazione di armamenti concepiti per la guerra multidominio, caratterizzata da interoperabilità, autonomia decisionale e rapidità d’intervento. Tra i sistemi più rilevanti, i missili ipersonici DF-17 e YJ-21, capaci di evadere le difese antimissile tradizionali grazie a traiettorie manovrabili e velocità superiori a Mach 5; i droni autonomi da attacco e ricognizione, sia terrestri che aerei, equipaggiati con algoritmi di intelligenza artificiale; e i cosiddetti “cani-robot” armati, pensati per operazioni in ambienti urbani ad alta densità.
Significativa anche la presenza di piattaforme nucleari mobili a capacità tattica, che confermano un cambiamento nella postura strategica cinese: non più solo deterrenza difensiva, ma predisposizione all’impiego selettivo della forza in scenari regionali ad alta intensità. L’invito rivolto a Kim Jong-un, il primo in oltre sessant’anni a un leader nordcoreano per una parata militare in Cina, ha consolidato la percezione di un nuovo asse autoritario asiatico. Il triangolo Mosca-Pechino-Pyongyang, rafforzato dalla cooperazione militare in ambito ucraino, sembra evolversi verso un sistema di sicurezza parallelo a quello atlantico, ma fondato su logiche di sovranità assoluta e interessi divergenti. Tuttavia, dietro l’apparente coesione, affiorano crepe strutturali. La SCO non è una vera alleanza militare: è piuttosto un contenitore di convergenze opportunistiche, dove la sfiducia reciproca – tra India e Cina, tra Iran e Turchia, tra le repubbliche centroasiatiche – convive con la comune opposizione all’egemonia americana. Più che una coalizione ideologica, si tratta di una somma di solitudini strategiche, che oggi trovano nella Cina un catalizzatore momentaneo, non un leader riconosciuto.
Sul fronte occidentale, la reazione più clamorosa è giunta da Donald Trump, che ha sfruttato l’evento per attaccare direttamente Xi Jinping, accusandolo di aver deliberatamente omesso il contributo americano alla liberazione della Cina durante la Seconda guerra mondiale. Attraverso Truth Social, l’ex presidente ha scritto: “Vi prego di porgere i miei saluti a Vladimir Putin e Kim Jong-un mentre cospirate contro gli Stati Uniti”. Un’uscita polemica che, pur caricaturale nei toni, riflette il fallimento strategico del suo approccio: quello di distanziare Mosca da Pechino. Al contrario, i due leader hanno scelto di armonizzare le rispettive narrazioni resistenziali, proponendo la vittoria del 1945 non come un trionfo collettivo delle democrazie, ma come il risultato del sangue versato da due imperi in ascesa. Una riscrittura storica che, dietro la retorica commemorativa, cela una sfida aperta all’ordine liberale internazionale. La parata, durata settanta minuti, ha avuto il valore simbolico di un manifesto. È stata al tempo stesso dimostrazione di forza, operazione diplomatica e prova generale di un nuovo ordine mondiale “con caratteristiche cinesi”. Più che celebrare il passato, ha voluto segnare un punto di rottura col presente, annunciando un futuro in cui le coordinate del potere saranno ridisegnate non più a Washington, Bruxelles o Londra, ma a Pechino, Mosca e – forse – Pyongyang.
L’Occidente, diviso e affaticato, è posto di fronte a un bivio storico: riorganizzarsi attorno a un’agenda strategica coerente, oppure assistere al proprio lento disancoramento dal centro della scena globale. La Cina ha alzato la posta, ha scoperto le carte. E, per il momento, non sembra avere intenzione di fare marcia indietro.