di Cristina Di Silvio
Nel giugno 2025, la città di Los Angeles è diventata epicentro di una crisi interna ad alta intensità, con significative implicazioni strategiche.
Los Angeles, qualcosa di già visto, eppure è diverso…
La violenza che si è scatenata in questi giorni non è originata da problemi con i rapporti con l’autorità, almeno non con la polizia, per esempio, per la sua violenza guidata da bias social d’antan, eppure l’elemento migrazione vi rientra, eccome, correlata alla politica federale tracciata dal Presidente Trump.
Innescata da una serie di operazioni condotte dall’ICE (Immigration and Customs Enforcement) in quartieri ad alta concentrazione migratoria, l’escalation ha trasformato un intervento di polizia in un’operazione multidominio di contenimento urbano, con il coinvolgimento diretto della Guardia Nazionale e assetti federali.
Il dispiegamento di 2.000 riservisti della Guardia Nazionale, supportati da capacità ISR e mezzi a controllo remoto, ha rappresentato l’attuazione di un modello di gestione dell’ordine pubblico che si avvicina a dottrine di counterinsurgency urbana. Le unità sono intervenute in scenari complessi di protesta diffusa, con caratteristiche di disobbedienza civile organizzata e mobilitazione digitale.
L’ambiente operativo è stato classificato come instabile ad alta densità civile, con almeno cinque distretti metropolitani posti sotto coprifuoco e presenza militare fissa. La risposta federale si colloca in un ambito giuridico definito da due norme chiave: il Posse Comitatus Act (1878), che limita l’impiego delle forze armate in ambito civile, e il Federal Insurrection Act (1807), che consente deroga in caso di insurrezione o incapacità delle autorità statali. Quest’ultimo, raramente utilizzato in epoca moderna, è stato formalmente evocato per legittimare la proiezione di forza su territorio nazionale, segnando un precedente rilevante nella storia della sicurezza interna americana. La vicenda di Los Angeles dimostra una transizione da una postura reattiva a una logica preventiva e proattiva, nella quale la sicurezza nazionale viene ridefinita non solo in funzione delle minacce esterne, ma anche come gestione del dissenso interno.
Possibile, a Los Angeles, addirittura il dispiegamento dei Marines.

L’immigrazione irregolare è stata concettualizzata come minaccia ibrida, e le proteste come “fattore destabilizzante di matrice interna”. Questo approccio si inserisce in una più ampia trasformazione della dottrina di sicurezza statunitense, in cui il confine tra operazioni militari convenzionali e Homeland Security si fa sempre più poroso. Le regole d’ingaggio adottate a Los Angeles — sorveglianza UAV, uso di armi non letali, blocchi dinamici — riflettono protocolli standardizzati nei teatri esteri, applicati ora al contesto urbano interno. Nei primi tre giorni di crisi si sono registrati: oltre 600 arresti; più di 90 feriti, tra civili e agenti;15 veicoli incendiati; 8 droni tattici operativi in missioni di monitoraggio; 5 distretti sotto coprifuoco. Tali numeri non descrivono solo una crisi di ordine pubblico, ma una vera e propria operazione di stabilizzazione domestica.
Le implicazioni globali non si sono fatte attendere. Partner NATO e osservatori OSCE hanno espresso preoccupazione per l’adozione di modelli coercitivi interni. Il Parlamento Europeo ha convocato una sessione straordinaria per analizzare le derive securitarie nei Paesi occidentali. Dal Messico, il governo ha chiesto tutela diplomatica per i propri cittadini coinvolti nei raid. Sul piano multilaterale, organizzazioni internazionali per i diritti civili hanno denunciato l’uso sproporzionato della forza. In ambito geopolitico, l’evento è già oggetto di analisi nei principali centri strategici globali, in quanto indica una ridefinizione della postura di potere statunitense: più centralizzata, più assertiva e meno vincolata a mediazioni locali.
Il caso Los Angeles si configura come un precedente operativo e dottrinario nella gestione militare delle crisi interne nei sistemi democratici avanzati. Los Angeles, quindi, introduce un paradigma in cui lo spazio urbano è considerato dominio strategico interno, suscettibile di intervento multilivello, con regole d’ingaggio adattive e giustificazione emergenziale. In uno scenario internazionale segnato da polarizzazione ideologica, migrazioni di massa e crisi istituzionali, la lezione americana mostra come le frontiere tra sicurezza, potere e controllo siano destinate a ridefinirsi — non più su scala globale, ma all’interno dei confini stessi delle grandi democrazie.