E se Kant avesse ancora ragione?

di Cristina Di Silvio

230 anni dopo “Per la pace perpetua”, il filosofo ci interroga sulla guerra – e sulle nostre responsabilità. In un’epoca che celebra tutto e ricorda nulla, dove ogni giorno è la Giornata Mondiale di qualcosa, un anniversario tondo rischia di passare sotto silenzio. Eppure, 230 anni fa – nel 1795 – Immanuel Kant pubblicava un libretto destinato a durare più della polvere di molte rivoluzioni: Per la pace perpetua.

Rileggere Kant per comprendere l’oggi

Per la pace perpetua, quindi, ma non era un sogno, non era un trattato di morale: era un vero e proprio progetto. Un concreto piano giuridico – lucido, radicale – per costruire una pace reale e duratura tra i popoli.

E sì, è vero: oggi parlare di pace fa quasi sorridere.

Un’ironia amara, in un mondo che brucia a Gaza, in Ucraina, in Sudan, mentre nuove ombre si affacciano ogni giorno ai confini dell’Europa e del Pacifico.

Ma Kant non parlava ai potenti. Parlava a noi. Parlava a chi la guerra non la vuole – e non la sceglie – ma la subisce. Ai cittadini, che portano sulle spalle il peso delle decisioni altrui. Scriveva che la guerra, per i capi di Stato, può diventare “una sorta di passatempo per futili motivi”, perché loro non rischiano nulla. Chi muore, chi perde la casa, chi si ritrova profugo o orfano, è sempre qualcun altro. È sempre la gente. E allora: siamo davvero sicuri che la guerra sia inevitabile? Che “non ci sia nulla da fare”? Che il mondo vada così e basta? Kant la pensava diversamente.

Kant

E proprio per questo, Kant, fondava la pace non sull’utopia morale, ma su un impianto giuridico. Sul diritto. Per lui, il problema non era rendere gli uomini migliori, ma costruire regole capaci di contenere il peggio. Aveva immaginato un’architettura precisa, articolata in tre grandi assi portanti.

Il primo era il diritto civile, lo ius civitatis: il patto che regola i rapporti tra i cittadini all’interno dello Stato. È ciò che tiene insieme una comunità, ciò che dovrebbe garantire giustizia, uguaglianza, sicurezza. È il fondamento della convivenza interna.

Poi veniva il diritto internazionale, lo ius gentium, che dovrebbe disciplinare i rapporti tra Stati sovrani. Per Kant, nessuna guerra può essere considerata legittima come strumento politico. I conflitti tra Stati vanno prevenuti e regolati da un diritto comune, da norme che valgano per tutti, senza eccezioni di potere o interesse.

Ma il passaggio più audace – e oggi ancora largamente disatteso – era il terzo livello: lo ius cosmopoliticum, il diritto cosmopolitico. Un principio rivoluzionario: ogni essere umano, in quanto tale, ha diritti fondamentali che devono essere rispettati ovunque si trovi, a prescindere dalla sua cittadinanza o dal confine in cui è nato. Non è lo Stato a “dare” diritti: è la persona ad averli già, prima di ogni appartenenza.

È questa l’idea che anticipa, e forse supera, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Un’architettura visionaria, sì, ma razionale. E allora oggi ci chiediamo: che cosa ne è rimasto? Lo ius civitatis è minacciato dalla privatizzazione globale dei diritti: le grandi piattaforme, le multinazionali, le intelligenze artificiali e i capitali finanziari hanno spesso più potere delle leggi. I tribunali, spesso, rincorrono. Il ius gentium è ferito a morte: l’ONU assiste impotente a conflitti che esplodono nel cuore dell’Europa come nel Medio Oriente. E il ius cosmopoliticum – l’idea che ogni essere umano abbia diritti inviolabili, oltre ogni confine – affoga nel Mediterraneo, si scontra coi muri alle frontiere, viene calpestato da logiche di esclusione, dominio, paura.

E noi? Dove siamo, in tutto questo? Abbiamo vissuto ottant’anni dentro una pace relativa, fragile, costruita sulla deterrenza e sulla diplomazia. E oggi, davanti al ritorno della guerra in diretta TV, sembriamo paralizzati, quasi stupiti. Come se non avessimo mai immaginato che potesse accadere di nuovo. Ma è proprio ora che Kant ci torna necessario. Perché ci ricorda che la pace non accade da sola. Non è la normalità, non è lo “stato naturale” delle cose. La pace va costruita. Va difesa. Va progettata, come una costituzione. Come un ordine mondiale. Con fatica, razionalità, responsabilità. La domanda che ci pone è scomoda, e per questo urgente: vogliamo davvero lasciare che la guerra torni a essere una soluzione praticabile?

Oppure siamo disposti a rimettere in moto l’intelligenza politica, il diritto internazionale, le istituzioni globali? Perché l’alternativa è chiara. È il ritorno all’osso alzato contro il cielo, alla scena muta e primitiva del primate che distrugge prima ancora di capire.

È l’epilogo descritto da Kubrick, quando dalla sabbia emerge la Statua della Libertà decapitata, simbolo di una civiltà che ha dimenticato sé stessa. Non basta più invocare la pace: bisogna pensarla, organizzarla, renderla possibile. E Kant – con 230 anni sulle spalle e una lucidità che ci manca – è ancora qui a chiederci conto.

E noi, cosa rispondiamo?