Operazione “Gideon’s Chariots II”: l’assalto di Israele a Gaza è imminente

Gaza è una polveriera sull’orlo dell’implosione. Israele si prepara all’assalto finale con l’operazione denominata “Gideon’s Chariots II”, un chiaro richiamo biblico a Gedeone, il giudice che, con appena 300 uomini scelti per fede, disciplina e determinazione, sconfisse un esercito soverchiante. Non è una citazione retorica: è la dichiarazione strategica di Israele.

di Cristina Di Silvio

Israele sull’orlo della guerra urbana totale

L’obiettivo è chiaro e spietato nella sua essenza operativa – penetrare nel cuore di Gaza City, decapitare la leadership di Hamas e smantellare quell’infrastruttura militare sotterranea che da anni costituisce la colonna vertebrale della resistenza armata islamista. Ma non sarà una campagna rapida. Si prospetta una guerra urbana a tutti gli effetti: una lotta corpo a corpo tra palazzi sventrati e vicoli minati, tra trappole esplosive e tunnel invisibili.

Il Capo di Stato Maggiore, generale Eyal Zamir, ha lanciato un monito severo: ogni metro conquistato sarà pagato in sangue. Il rischio di perdere ostaggi ancora in mano a Hamas è elevatissimo; il pericolo per le truppe, ancora più concreto. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno già mobilitato 60.000 riservisti, schierato blindati Merkava in assetto offensivo, attivato droni d’attacco e piattaforme di sorveglianza in volo continuo, mentre unità speciali attendono l’ordine per l’infiltrazione in ambienti ad altissima intensità di combattimento.

Le mappe di evacuazione sono pronte, i corridoi umanitari tracciati, le sirene risuonano senza sosta nei cieli del sud. L’assalto, se autorizzato, sarà rapido, concentrico, totale. Ma proprio quando tutto sembrava convergere verso l’invasione, Hamas ha giocato una carta imprevista: secondo fonti vicine all’AFP, il gruppo avrebbe accettato una tregua di 60 giorni, mediata da Qatar ed Egitto e appoggiata tacitamente dagli Stati Uniti.

La proposta prevede il rilascio immediato di dieci ostaggi israeliani, seguito da scambi graduali e dalla restituzione di alcuni corpi. Ma la domanda resta: è un’apertura reale o solo una mossa tattica per guadagnare tempo, riorganizzarsi e colpire di nuovo? Intanto, la guerra si combatte anche sul fronte della comunicazione.

Israele occupa gaza

Hamas sfrutta attivamente Telegram e altri canali social per rafforzare una narrazione che definisce l’evacuazione come “umiliazione” e “sfollamento forzato”. Una strategia deliberata per scoraggiare la fuga dei civili, trattenendoli all’interno delle zone di operazione come scudi umani e strumenti propagandistici. Ogni famiglia che resta, ogni edificio abitato, diventa un ostacolo operativo per l’IDF e un valore simbolico per la resistenza.

È guerra psicologica allo stato puro, non meno determinante di quella combattuta con le armi convenzionali. Ma mentre l’IDF si prepara a combattere tra cemento e sangue, Israele si confronta con una spaccatura interna sempre più profonda. Le piazze di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme si riempiono ogni giorno di più. Decine di migliaia di cittadini—familiari degli ostaggi, attivisti, civili esausti—chiedono un cessate il fuoco immediato, un accordo, una via d’uscita da una guerra percepita come infinita.

I sondaggi parlano con chiarezza: l’80% della popolazione israeliana sarebbe favorevole a una tregua. Eppure, il primo ministro Netanyahu continua a spingere per la linea dura, sostenuto dall’ala ultranazionalista della sua coalizione, rappresentata da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Per loro, ogni compromesso è inaccettabile: l’unico esito legittimo è la resa totale di Hamas, il disarmo completo e la liberazione incondizionata di tutti gli ostaggi. Ogni concessione è interpretata come una sconfitta.

Sul piano geopolitico, lo scenario si complica ulteriormente. Il Qatar agisce da mediatore discreto, l’Egitto si dice pronto a inviare una forza multinazionale sotto egida ONU per la stabilizzazione post-bellica. L’Autorità Nazionale Palestinese, sotto la guida di Mohammad Mustafa, ha annunciato la creazione di un comitato ad interim per l’amministrazione civile della Striscia in caso di transizione.

È una mossa che mira a estromettere Hamas dalla governance dell’enclave, ma che resta fragile e incerta. A nord, Hezbollah osserva e prepara le proprie mosse. A Teheran, l’establishment militare valuta ogni passo con fredda lucidità: un errore israeliano potrebbe infiammare l’intero scacchiere regionale. La guerra che si prefigura non è solo fatta di mezzi corazzati, incursioni notturne e attacchi mirati. È uno scontro dottrinale, ideologico, quasi teologico. Hamas glorifica il martirio come suprema forma di resistenza, Israele rivendica il diritto alla sicurezza attraverso la superiorità militare e l’iniziativa strategica.

Entrambe le parti attingono a fonti sacre – Corano e Bibbia – per legittimare le proprie azioni, trasformando Gaza in un’arena di significati profondi, dove la fede si fonde con la violenza e la politica con la religione. In mezzo, ci sono i civili: stretti tra due fuochi, senza vie di fuga, vittime di una guerra che ha ormai superato i confini della razionalità.

Tutto si gioca nelle prossime ore, forse nei prossimi giorni. Se Israele darà il via all’assalto, entrerà in una nuova fase del conflitto: combattimenti casa per casa, perdite elevate, un’operazione che potrebbe durare mesi. Se invece accetterà la tregua, otterrà risultati umanitari e diplomatici immediati, ma rischierà di apparire indebolito agli occhi di una leadership divisa e di un nemico che interpreta ogni cedimento come una vittoria morale.

In ogni caso, non si tratterà di una semplice scelta operativa: sarà una decisione storica. Gaza oggi non è soltanto un campo di battaglia. È una linea di faglia tra due visioni del mondo. E la prossima mossa potrebbe ridefinire non solo le sorti del conflitto israelo-palestinese, ma l’intero equilibrio strategico del Medio Oriente.