Il caso del Freud Museum, sullo sfondo il genocidio palestinese

Siamo a un passo concreto da una terza guerra mondiale, sicuramente già lo è, modello puzzle componibile (Coree, Taiwan, instabilità sudamericane, insorgenza africane) e il medio oriente ne rappresenta iconicamente la cartina tornasole. Gaza in blackout, Cisgiordania assediata, Yemen e Libano già bambordati, ora nuovi strike sull’Iran e in Europa si ha paura di parlare di genocidio del popolo palestinese.

di Cristina Di Silvio

Genocidio, una parola che non si può/vuol pronunciare

Il recente caso del Freud Museum di Vienna, che ha prima invitato e poi escluso da un’esposizione un noto intellettuale e psicoanalista per l’uso del termine “genocidio” in riferimento alla situazione palestinese, rappresenta un punto di svolta nel dibattito pubblico europeo.

Genocidio freud

L’episodio, emblematico per modalità e contenuti, chiama in causa non solo la libertà accademica, ma soprattutto la capacità delle istituzioni culturali occidentali di confrontarsi con la realtà geopolitica contemporanea quando questa mette in crisi i propri pilastri identitari.

L’intervista in questione doveva esplorare i grandi traumi collettivi del nostro tempo – dalla pandemia ai cambiamenti climatici, dalle guerre ai diritti civili – ma è stata sospesa nel momento in cui l’ospite ha denunciato apertamente l’escalation militare israeliana a Gaza come una forma di genocidio. La successiva “pausa”, così definita dal museo, è stata nei fatti una censura. Non isolata: episodi simili hanno colpito intellettuali come Edward Said e Ilan Pappé, evidenziando un pattern ricorrente di esclusione del dissenso che, pur previsto e conosciuto, risulta intollerabile quando rompe pubblicamente il consenso implicito.

il caso del freud museum sullo sfondo il genocidio palestinese 1 Difesa Magazine

Il nodo non è solo politico, ma anche profondamente simbolico. Un punto emotivo centrale è l’“esclusività” del termine genocidio, fortemente legato, per molte comunità ebraiche e istituzioni occidentali, alla Shoah come trauma fondativo. Riconoscere l’uso dello stesso termine per descrivere l’azione di uno Stato ebraico implica mettere in discussione un intero impianto storico, narrativo ed emotivo. Ma il fatto che la Shoah rappresenti una ferita inassimilabile non può giustificare l’eccezione morale permanente.

Numerosi osservatori notano oggi un crescente scollamento tra le narrazioni ufficiali e la presa di coscienza di ampie fasce della popolazione, in particolare fra i giovani ebrei progressisti, che rifiutano l’automatismo tra identità ebraica e sostegno acritico allo Stato di Israele. Movimenti come Jewish Voice for Peace e l’Institute for the Critical Study of Zionism invocano un’etica della solidarietà e dei diritti umani che superi la logica della memoria selettiva. Il caso del Freud Museum si inscrive perfettamente in questo contesto. L’istituzione, che si è fatta promotrice dell’idea di truth sadism – ovvero il dolore psichico generato dall’incontro con la verità – non ha retto il peso della propria coerenza. Invece di sostenere il confronto, ha scelto la rimozione.

Il comunicato dell’intellettuale escluso parla di una crisi di “reality testing”, ovvero dell’incapacità psichica e culturale di accettare fatti che contraddicono credenze radicate.

La negazione del genocidio in corso a Gaza non si limita a un’opinione divergente: è la difesa estrema di una narrativa fondata su un’identificazione univoca tra vittima e memoria, che oggi entra in cortocircuito con una realtà geopolitica sempre più difficile da ignorare. In un’epoca segnata da conflitti globali, crisi ambientali e polarizzazioni ideologiche, la capacità di chiamare le cose con il loro nome non è solo un gesto morale, ma una condizione per la sopravvivenza del pensiero critico.

Il coraggio di attraversare il trauma della verità è oggi una delle sfide più urgenti per le democrazie occidentali.