Sempre più giuristi e politologi affermano che quello di Israele è un vero genocidio, e mentre Mattarella esprime perplessità sulla condotta bellica delle truppe con la stella di David, e Francia, Gran Bretagna e Canada vogliono riconoscere lo Stato di Palestina, Egitto e altri paesi arabi chiedono la smilitarizzazione di Hamas. Su tutti tuona Bibi: Gaza potrebbe essere annessa a Israele.
di Cristina Di Silvio
Israele replica il genocidio, cambiando posizione
Due organizzazioni israeliane per i diritti umani, B’Tselem e Physicians for Human Rights-Israel (PHRI), hanno lanciato il 28 luglio 2025 un’accusa di portata devastante: Israele starebbe commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza.
Non si tratta di una denuncia generica, né di un’accusa lanciata da un tribunale straniero o da organizzazioni ideologicamente ostili: è una verità detta dall’interno, da cittadini israeliani, da osservatori che conoscono profondamente la macchina statale, l’esercito, la società, e che fino a ieri operavano nei margini consentiti di una democrazia sotto assedio.
Il documento pubblicato da B’Tselem non lascia spazio all’ambiguità. Parla di un “regime genocida” che agisce consapevolmente con l’intento di distruggere la società palestinese a Gaza.
Le evidenze fornite — statistiche, testimonianze oculari, intercettazioni di ordini, dichiarazioni pubbliche di ufficiali e ministri — mostrano un disegno coerente, articolato, chirurgico nella sua brutalità. La PHRI, dal canto suo, ha prodotto un’analisi medico-legale che descrive in dettaglio lo smantellamento sistematico del sistema sanitario gazawi: ospedali bombardati, ambulanze colpite, medici arrestati, pazienti lasciati morire per mancanza di cure, assistenza negata anche nei casi di evacuazione urgente.


Questo non è il caos incontrollabile della guerra, spiegano i medici: è una campagna strutturata, reiterata, deliberata. Il termine usato, senza esitazione, è genocidio.
Non metafora, ma definizione giuridica secondo la Convenzione ONU del 1948, di cui Israele è firmatario.
L’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale o etnico: i palestinesi. La denuncia è tanto più sconvolgente perché proviene dal cuore stesso di Israele. “Niente ti prepara alla consapevolezza che fai parte di una società che commette genocidio”, ha dichiarato Yuli Novak, direttrice di B’Tselem. Il dolore etico è palpabile, ma la lucidità dell’analisi non vacilla: l’attacco del 7 ottobre 2023 ha sì generato un trauma profondo nella società israeliana, ma quel trauma — e la paura che ne è seguita — è stato strumentalizzato da un governo di estrema destra con un’agenda messianica.
L’annientamento della popolazione palestinese, presentato come autodifesa, è diventato la nuova dottrina militare. La retorica pubblica si è trasformata, normalizzando espressioni di odio razziale, deumanizzando il nemico, riducendo la popolazione civile a obiettivi collaterali inevitabili. Il genocidio non si manifesta solo nei numeri dei morti — già ben oltre i 50.000 — ma nella sistematica distruzione delle strutture vitali: acqua, elettricità, scuole, ospedali, strade, sistemi fognari.
A Gaza, non è rimasto un solo ospedale pienamente operativo.
Le organizzazioni internazionali non riescono più a entrare, gli aiuti vengono bloccati, le evacuazioni impedite. Il personale medico lavora in condizioni medievali.
Molti sono stati uccisi mentre tentavano di curare pazienti sotto i bombardamenti. Il dottor Guy Shalev, direttore esecutivo di PHRI, è netto: “Questo è un modello coerente di distruzione. È nostro dovere chiamarlo per quello che è: genocidio. E combatterlo.” La complicità internazionale è parte integrante di questa catastrofe.
Gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Regno Unito hanno continuato a fornire sostegno politico, copertura diplomatica e armi a Israele. L’Onu si è rivelata impotente, bloccata dai veti incrociati. I leader occidentali, pur esprimendo “preoccupazione umanitaria”, hanno evitato qualsiasi azione concreta, qualsiasi sanzione, qualsiasi rottura con Tel Aviv. Questa passività, o peggio, questo sostegno attivo, viene letta da B’Tselem e PHRI come corresponsabilità. La parola “complicità” viene usata senza riserve. Intanto la violenza si espande. B’Tselem avverte che lo schema di distruzione applicato a Gaza è già in fase di implementazione anche in Cisgiordania, seppure in scala ridotta: espropri, incursioni notturne, omicidi mirati, arresti arbitrari, distruzione di infrastrutture civili.
La visione strategica che emerge dai rapporti delle ONG è inquietante: l’obiettivo non è solo Hamas, né solo Gaza, ma l’intero impianto della società palestinese. Uomini, donne, bambini, strutture educative, religiose, sanitarie, ogni forma di continuità collettiva deve essere spezzata.
Per chi osserva da una prospettiva geopolitica e militare, questa crisi segna un punto di rottura.
L’uso della forza non come strumento per piegare un’organizzazione armata, ma per decostruire una società, pone interrogativi inquietanti sulla trasformazione del conflitto israelo-palestinese in un paradigma di guerra etnica asimmetrica.
Le implicazioni sono globali: l’erosione del diritto internazionale, il collasso della fiducia nelle istituzioni multilaterali, la radicalizzazione dei movimenti giovanili arabi e musulmani, l’aumento del rischio terroristico anche in Europa e Nord America. Inoltre, l’impatto strategico sulla stabilità regionale è potenzialmente devastante: Hezbollah al nord, l’Iran sullo sfondo, milizie sciite pronte ad attivarsi, e la possibilità reale di un’escalation a più fronti.
Questo non è più solo un conflitto locale: è un catalizzatore di crisi globali. Ma l’elemento più dirompente di questa denuncia è che viene dal cuore di Israele. È una frattura interna, una diserzione etica, un grido di allarme lanciato da chi non vuole più tacere. I professionisti dei diritti umani, i medici che ogni giorno raccolgono feriti sotto le macerie, gli attivisti che monitorano i crimini: tutti affermano che il tempo è finito. O si interviene ora, o il disastro umano e politico sarà irreversibile. Gaza oggi è un campo di sterminio a cielo aperto, sotto gli occhi del mondo. Non ci si potrà più nascondere dietro l’alibi della complessità. Le sirene non suonano solo per i palestinesi. Suonano anche per l’umanità intera.
La Storia ci guarda. E non perdonerà il silenzio.