Trump minaccia di inviare soldati ovunque vi siano delle insurrezione, dopo il caso Los Angeles e California, nel suo complesso, ma, nel contempo, il Washington Post richiama anche l’attenzione sull’Italia (indirettamente, ovvio). Tra le migliaia di stranieri presenti negli Stati Uniti in modo potenzialmente illegale che l’amministrazione federale trasferirà a partire da questa settimana a Guantanamo ci sono anche degli italiani: “I cittadini stranieri presi in considerazione provengono da diversi paesi – scrive il quotidiano nella versione online – tra questi, centinaia provengono da nazioni europee amiche, tra cui Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Paesi Bassi, Lituania, Polonia, Turchia e Ucraina, ma anche da altre parti del mondo, tra cui molti provenienti da Haiti”.
di Cristina Di Silvio
Ordine pubblico e sicurezza nazionale, dopo la California, cosa attenderà Trump?
Dalle strade del Fashion District ai palazzi del potere federale, la frattura tra Stato e Federazione negli Stati Uniti si è fatta visibile, profonda, sistemica. Gli scontri esplosi in California nelle ultime 72 ore, innescati da una massiccia operazione ICE e alimentati da una gestione muscolare da parte dell’amministrazione Trump, si sono trasformati in una crisi nazionale.
Una crisi che, al di là del fronte interno, mette in discussione la stabilità geopolitica della superpotenza americana in un momento cruciale per gli equilibri globali. Il 6 giugno, a Los Angeles, 118 persone sono state arrestate durante un’operazione dell’Immigration and Customs Enforcement nel cuore della città. Le proteste sono state immediate. Alimentate da gruppi civici, attivisti digitali e reti di mobilitazione urbana, si sono diffuse in poche ore in più distretti della città. I manifestanti hanno usato droni civili, comunicazioni criptate e trasmissioni live, mettendo in atto tattiche che ricordano gli scenari di conflitto ibrido urbano.

Il 7 giugno, la Casa Bianca ha reagito con una decisione senza precedenti dal dopoguerra: l’invio unilaterale di 2.000 soldati della Guardia Nazionale a Los Angeles, senza il consenso del governatore Gavin Newsom. La mossa ha scatenato un’ondata di critiche, accendendo una contesa costituzionale: nessuna emergenza nazionale era stata dichiarata, né risultava attivato l’Insurrection Act.L’8 giugno, la protesta si è spostata a San Francisco. Oltre 400 manifestanti hanno assediato la sede ICE in Sansome Street. La manifestazione è degenerata in scontri notturni: due agenti feriti, strutture danneggiate, 154 arresti. Le autorità locali si sono trovate schiacciate tra l’imperativo dell’ordine pubblico e il rifiuto di coordinarsi con l’intervento federale. Intanto, le proteste scoppiate a Los Angeles si sono estese ben oltre i confini della California. A San Francisco e Santa Ana, la Guardia Nazionale ha messo in sicurezza gli edifici federali, ma la protesta ha raggiunto anche Atlanta, Seattle, Dallas, Louisville e New York. In Texas, il governatore Greg Abbott ha confermato più di una dozzina di arresti tra Dallas e Austin, denunciando un “coordinamento sovversivo a livello interstatale”.
L’uso delle forze armate in California solleva questioni legali sostanziali. Il Posse Comitatus Act (1878) limita il ruolo delle forze federali in operazioni di polizia. Il mancato ricorso all’Insurrection Act o a un’emergenza nazionale rende la mossa di Washington formalmente fragile, e politicamente incendiaria.
Il governatore dello Stato della California, Newsom, ha annunciato una causa contro l’amministrazione federale, accusando il presidente Trump di “sovvertire il federalismo americano”. Nel frattempo, il Pentagono ha confermato lo stanziamento di 134 milioni di dollari per l’operazione in California, con il coinvolgimento anche di unità Marines e capacità C-UAS (anti-drone).
Fonti vicine al Dipartimento della Difesa non escludono il dispiegamento di assetti CBRN (chimico, biologico, radiologico, nucleare) in caso di sabotaggi infrastrutturali o escalation. Ciò che accade ora negli Stati Uniti non è solo un episodio di tensione interna. È una crisi sistemica con effetti moltiplicatori sulla scena globale. In pieno sforzo di contenimento verso Russia e Cina, con l’Indo-Pacifico al centro della nuova strategia statunitense, l’immagine di una nazione divisa e militarizzata mina la credibilità geopolitica americana.
Le cancellerie europee guardano con preoccupazione “l’affaire California”; Pechino e Mosca rilanciano le immagini di scontri urbani come prova del “fallimento democratico” occidentale.
Oggi la vera battaglia non è tra cittadini e polizia, ma tra modelli di governance.
La militarizzazione del dissenso, la sovrapposizione tra autorità locali e federali, l’ibridazione delle tecnologie civili e militari sono le componenti di un nuovo scenario americano: quello di una guerra interna a bassa intensità, frammentata ma persistente, che sfida la tenuta costituzionale del Paese.Los Angeles e San Francisco sono ormai simboli di una nuova fase americana, dove la sicurezza nazionale si confronta con la legittimità democratica. Se questa crisi non sarà gestita con lucidità, rischia di aprire una fase di instabilità istituzionale permanente, con ricadute strategiche non solo per Washington, ma per l’intero ordine internazionale.
Los Angeles e San Francisco non sono più soltanto teatri di protesta: sono diventate scenari anticipatori di un cambiamento di fase, la California potrebbe (con uno sguardo alle politiche sociali di sicurezza) essere sì un laboratorio, un po come gia fu Los Angeles nel 1992.
Una transizione che mette in discussione il bilanciamento tra libertà civili, autorità locale e proiezione militare del potere. Se non affrontata con razionalità e coraggio istituzionale, rischia di ridefinire – e forse frammentare – l’identità stessa degli Stati Uniti come federazione democratica.