Brasile, sanguinoso intervento nelle favelas

Il Brasile con il pugno duro, centinaia gli uccisi durante un raid delle forze di sicurezza nelle favelas e spuntano anche armi in dotazione all’esercito di Maduro.

di Cristina Di Silvio

Violenza e Sicurezza nelle favelas del Brasile

Rio de Janeiro non è più una città: è un laboratorio di sperimentazione biopolitica.

Le sue favelas, disseminate come metastasi ai margini dell’asfalto, incarnano lo spazio paradigmatico della necropolitica — per dirla con Achille Mbembe — dove il potere decide chi può vivere e chi può morire, chi è cittadino e chi semplice corpo esposto alla violenza.

L’Operação Contenção, condotta il 28 ottobre 2025 nei complessi di Alemão e Penha, non rappresenta un’operazione di polizia in senso classico: è una dimostrazione di forza sovrana, un rituale di disciplinamento dello spazio urbano attraverso la spettacolarizzazione della morte.

Quasi 2.500 uomini, blindati, droni, elicotteri d’assalto, centinaia di mandati d’arresto: la semantica militare invade il lessico della sicurezza pubblica. Ma la sicurezza, in questa geografia, non è mai neutra: è l’estensione della guerra con altri mezzi, un dispositivo che trasforma i sobborghi informali in campi d’operazione e la cittadinanza povera in un corpo da pacificare. Nel corso delle dodici ore di scontri, il confine tra polizia e fanteria si è dissolto.

Il Comando Vermelho ha risposto con armi automatiche e droni-granata, costruendo barricate di autobus incendiati. L’uso dello spazio urbano come arma — tipico delle guerriglie non convenzionali — si è manifestato con precisione tattica: la topografia labirintica delle favelas, i vicoli stretti, l’elevazione disordinata delle abitazioni hanno neutralizzato parzialmente la superiorità tecnologica dello Stato. La città, in quei momenti, non è più territorio civile, ma ambiente operativo: un palcoscenico tridimensionale in cui ogni cortile diventa posizione, ogni terrazza postazione di tiro.

Brasile favelas

È la piena realizzazione del concetto di urban warfare, già sperimentato a Mosul o ad Aleppo, ma qui applicato entro i confini di una democrazia formale. Questo spostamento — la guerra dentro la città, condotta dallo Stato contro una parte della propria popolazione — segna la trasformazione definitiva del Brasile in un paradigma ibrido: non più Stato di diritto, ma Stato di eccezione permanente.

La dichiarazione del governatore Cláudio Castro, secondo cui le sole “vere vittime” dell’operazione sarebbero i poliziotti caduti, non è una semplice distorsione politica. È un enunciato teologico-giuridico: la vita del povero nero di favela non appartiene alla sfera dei diritti, ma alla zona dell’indifferenza giuridica. Questa distinzione, apparentemente lessicale, produce effetti materiali. Significa che la morte di un giovane afrodiscendente di Alemão non è evento politico, ma statistica.

La nuda vita — per dirla con Agamben — non ha rappresentanza né lutto: è vita spogliata del suo valore simbolico, ridotta a segno di pericolo e, quindi, implicitamente, eliminabile. In questa prospettiva, l’Operação Contenção appare come l’espressione più limpida della politica dell’immunità: la società borghese dell’asfalto si percepisce assediata e richiede la neutralizzazione immunitaria delle periferie. Lo Stato risponde non con welfare o presenza, ma con munizioni. È l’applicazione perfetta della dottrina della sicurezza integrale, dove la difesa interna e quella esterna collidono fino a confondersi.Il conflitto armato nelle favelas non è soltanto espressione della violenza criminale: è un dispositivo economico funzionale.

Le fazioni — Comando Vermelho, Amigos dos Amigos e Terceiro Comando — gestiscono mercati ibridi in cui l’illegalità alimenta il circuito legale. Dalla distribuzione dell’energia elettrica ai trasporti clandestini, tutto confluisce in un sistema di micro-governance che supplisce alla paralisi statale. La “guerra alla droga”, formalmente volta a smantellare queste strutture, produce in realtà un’economia di guerra permanente: aumenta il bilancio securitario, legittima la militarizzazione e alimenta un flusso continuo di risorse politiche e finanziarie.

In termini geopolitici, le favelas rappresentano oggi una zona grigia dove si intersecano capitale illecito, governance para-statale e strategie di controllo sociale. La polizia di Rio, addestrata come unità d’assalto, opera secondo logiche che appartengono più al manuale del counter-insurgency che alla tutela dell’ordine civile.

Il BOPE, divenuto simbolo di virilità e potere, applica un paradigma coloniale interno: penetrare, bonificare, occupare. La città è così riscritta come territorio coloniale interno, dove il “nemico” non viene da fuori, ma abita al piano inferiore. In questa prospettiva, la repressione non mira a estirpare il crimine, ma a riaffermare gerarchie razziali e sociali, a mantenere l’asimmetria tra chi abita l’asfalto e chi la collina. Ogni operazione spettacolare, come la Contenção, è anche un atto di comunicazione politica.

Nel contesto pre-elettorale, il governatore Castro — espressione del populismo punitivo di destra — capitalizza la violenza come segno di efficienza. La “pacificazione” diventa una metafora di governo: ordine per i ricchi, silenzio per i poveri. La logica è la stessa che sostiene le guerre asimmetriche contemporanee: la costruzione del nemico interno come dispositivo di coesione nazionale. In termini di strategia militare, questo meccanismo produce un vantaggio tattico immediato (visibilità, consenso, deterrenza), ma un disastro strategico: radicalizza la marginalità, distrugge la fiducia civica e perpetua il ciclo della vendetta sociale. Qualsiasi tentativo di riforma non potrà prescindere da un cambio epistemologico: la sicurezza non come guerra, ma come infrastruttura sociale. Occorre un’intelligence finanziaria capace di mappare il riciclaggio del denaro criminale; una cooperazione giudiziaria internazionale che tratti il narcotraffico come network transnazionale, non come patologia locale; una riforma delle forze di polizia che disarticoli la loro complicità sistemica con i gruppi armati.

La dottrina di una sicurezza democratica, come già teorizzata da Ignacio Cano e Julita Lemgruber, richiede che il principio di legalità si applichi ovunque, anche nei territori stigmatizzati come “pericolosi”. Rio de Janeiro non è un caso isolato. È la cartina di tornasole di una tendenza globale: la militarizzazione della miseria, la gestione securitaria della disuguaglianza, la sostituzione del diritto con l’eccezione.

Dalle favelas di Rio alle banlieue parigine, dai sobborghi di Johannesburg alle periferie di Città del Messico, l’ordine neoliberale contemporaneo produce zone di esclusione in cui la sopravvivenza è concessa solo come concessione revocabile.

La nuda vita di Rio è il nostro specchio: mostra l’esito ultimo di un mondo che ha trasformato la sicurezza in ideologia e la guerra in metodo di governo.