di Cristina Di Silvio
Al Udeid sotto tiro: Teheran rilancia la guerra a bassa intensità, anche se ora vi sono voci (confermate) di una pax tra Israele e Iran, “mediata” da Trump.

USA all’attacco, poi in difesa, ora mediano la guerra a bassa intensità nel MO
Chi ha deciso l’ora, le coordinate e la potenza dell’attacco iraniano contro la base americana di Al Udeid non cercava la distruzione, ma la precisione.
L’azione iraniana contro la base USA nel Quatar deve essere letta attraverso il copione di una risposta formale e necessaria, specie rispetto al bombardamento dei tre siti nucleari di Teheran.
Il lancio di missili è stato preceduto da contatti informali tra autorità quatarine, iraniane e statunitensi, 13 missili sono stati intercettati, su 14, e la base era stata messa in sicurezza anzitempo.
Lecito, comunque porsi delle domande e anche avanzare delle risposte, stante un contesto liquido come quello che si vive in questi giorni in tutto il M.O.
Cosa significa quando uno Stato lancia missili su un obiettivo strategico senza voler causare vittime? E soprattutto: quale messaggio intende inviare — e a chi? l’Iran ha colpito alle porte di Doha, in pieno cuore operativo statunitense nel Golfo.
Al Udeid non è una base qualunque: è il principale hub logistico e di comando delle forze USA in Medio Oriente, ospita il Combined Air OperationsSu Center e rappresenta una proiezione permanente del potere americano nella regione.
Perché colpirla ora? E perché colpirla con questa modalità? È un attacco pensato per essere visto, tracciato, interpretato. Come nel 2020, dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani, Teheran riprende la dottrina della rappresaglia misurata: lanciare, ma non annientare; sfidare, ma non scatenare. Missili sì, ma senza provocare il tipo di danno che costringe il nemico a reagire in modo automatico. È deterrenza, ma con una grammatica nuova: chi colpisce non vuole vincere una battaglia, ma ristabilire un equilibrio. È una guerra a bassa intensità, dove le armi sono usate per comunicare più che per distruggere.
L’Iran ha scelto un obiettivo americano su territorio qatarino — alleato di Washington, ma con una linea più pragmatica verso Teheran. Perché non colpire in Iraq o in Siria, come già avvenuto? Perché forzare la mano su un nodo strategico ma politicamente ambiguo? Il messaggio è chiaro: l’Iran è in grado di penetrare gli spazi ritenuti “sicuri” dagli Stati Uniti. Ma lo fa su scala controllata, con margini di ambiguità. Cosa accadrà se la prossima volta non ci sarà alcun avviso? Quale sarà la linea rossa che separa la deterrenza dalla guerra aperta? La domanda più inquietante resta: gli Stati Uniti intendono rispondere sul piano militare, o accetteranno questa nuova normalità fatta di colpi chirurgici e silenzi strategici? E se scelgono di non reagire, che tipo di segnale manderanno agli altri attori regionali — Israele, Arabia Saudita, Emirati — che da mesi attendono una dimostrazione di fermezza?
L’Iran non sta cercando una guerra. Sta costruendo una narrativa militare: quella di una potenza che sa colpire senza dover invadere, che sa rispondere senza dichiarare. È sufficiente per riscrivere l’equilibrio del Golfo? Oppure siamo solo alla fase iniziale di un conflitto a orologeria? In una regione dove il tempo non scorre ma esplode, la vera domanda è una sola: chi controlla il ritmo della prossima escalation?
Sempre se una nuova escalation ci sarà…