Ci sono eventi che non cambiano soltanto la geopolitica, ma l’uomo stesso. L’11 settembre 2001 è stato uno di quei momenti. Un attacco asimmetrico, spettacolare nella sua efferatezza, che ha fatto esplodere in tempo reale la fine di ogni certezza occidentale. Quel giorno le Torri Gemelle non sono crollate soltanto a New York: è crollata una visione del mondo, un ordine, un’illusione di invulnerabilità costruita nel dopoguerra.
*di Cristina Di Silvio
Diritto internazionale in bilico, oggi 11 settembre più vivo che mai
«We got buried under more rubble… I was still alive», disse Frank Razzano, sopravvissuto all’inferno. Una frase che oggi, a distanza di quasi venticinque anni, sembra descrivere anche Gaza. Siamo ancora vivi, ma sepolti sotto nuove macerie: quelle morali.
Gaza è oggi il Ground Zero del XXI secolo, ma senza commemorazioni, senza rinascita, senza elaborazione. È l’epicentro di una guerra che ha smesso da tempo di essere solo guerra, trasformandosi in sistema, linguaggio, geografia e dissoluzione. Non si tratta più di conflitto tra Stati o tra eserciti, ma di una trasformazione strutturale della violenza, in cui le regole saltano, il diritto si piega, e la vittima diventa la popolazione stessa.
L’11 settembre non ha soltanto cambiato la dottrina militare degli Stati Uniti: ha ridisegnato l’intero paradigma di minaccia. La risposta americana – dalla War on Terror in Afghanistan all’invasione illegittima dell’Iraq – ha aperto un ciclo ventennale di conflitti fluidi, non dichiarati, tecnologici, pretestuosi, devastanti.
La logica della preemption ha sostituito quella della deterrenza, legittimando l’uso preventivo della forza e la neutralizzazione dell’altro prima ancora che si manifesti come nemico. Da allora, il mondo ha smesso di avere confini chiari. Il dominio terrestre è stato affiancato da quelli cibernetico, cognitivo, spaziale. La sorveglianza di massa è diventata norma. Il Patriot Act, i sistemi ISR, la manipolazione algoritmica dell’opinione pubblica, la militarizzazione dell’informazione: tutto è diventato guerra. E in questo scenario, Gaza è il punto di convergenza di ogni degenerazione strategica.
Più di 64.600 morti, oltre l’80% delle infrastrutture civili distrutte, 641.000 persone in condizioni di carestia catastrofica, bambini amputati, affamati, sepolti vivi: le cifre non sono numeri, ma la rappresentazione contabile del collasso della civiltà. L’operazione militare israeliana del 2023–2025 non ha precedenti per intensità, durata e brutalità. Raid sistematici, assedi totali, taglio delle forniture essenziali – acqua, elettricità, medicinali – l’uso di armi ad alto impatto in aree densamente popolate, ordini di evacuazione in zone dichiarate “umanitarie” che vengono poi bombardate: la realtà supera la distopia. Le parole dell’UE, che denuncia l’inaccettabilità di queste azioni, si perdono nel vuoto strategico.

La devastazione si estende: raid israeliani hanno colpito anche obiettivi in Qatar e Yemen, in assenza di mandato ONU, in un’escalation regionale che ha superato ogni perimetro tradizionale. Mosca condanna l’azione come “violazione grave del diritto internazionale”, ma la diplomazia internazionale resta spettatrice paralizzata. L’Europa barcolla tra il silenzio e la contraddizione; la Finlandia invoca la soluzione dei due Stati; Hezbollah minaccia il Golfo; l’Egitto media con le mani legate. La geopolitica si è fatta necropolitica: un gioco su chi muore e chi è autorizzato a farlo.
E cosa resta della guerra, quando non resta più niente? Solo le parole dei morenti. Il poeta palestinese Anas Al-Sharif, ucciso da un attacco aereo, ha lasciato scritto: “If these words reach you, know that Israel has succeeded in killing me and silencing my voice… Don’t forget Gaza. Don’t forget me in your sincere prayers.” Omar Abu Kuwaik, bambino sopravvissuto all’amputazione, crede ancora che la sua mano ricrescerà.
Un’allucinazione infantile che parla più di mille analisi strategiche: è la speranza tramutata in desiderio biologico. Nel cuore della devastazione, le richieste dei civili sono brutali nella loro semplicità: “Please help us stop this madness. People are killed every second. There’s no water, no electricity. We are hardly breathing.” Non chiedono più libertà, ma di essere uccisi in fretta.
Quella di Gaza non è una guerra, è un’architettura del terrore. È la fine della proporzionalità, della distinzione tra obiettivi civili e militari, dei principi del diritto internazionale umanitario. L’impiego della forza da parte di Israele è descritto come disumanizzante da giuristi e analisti. L’uso di sistemi di sorveglianza, intelligenza artificiale e munizionamento autonomo ha trasformato il campo di battaglia in una macchina algoritmica di morte.
L’ambiente stesso paga il prezzo della guerra: le bombe equivalgono a milioni di tonnellate di CO₂, le infrastrutture distrutte generano una catastrofe ambientale. Gaza, oltre che cimitero umano, è anche zona climatica di non ritorno. L’11 settembre ha rappresentato una svolta strategica. Gaza è la sua degenerazione terminale. A Ground Zero si piangeva un attacco. A Gaza si vive e si muore sotto attacco permanente. A New York si ricostruiva. A Gaza si cancella anche la speranza.
Nel 2001, vivere era un atto di resistenza. Oggi, a Gaza, sopravvivere è un atto di condanna. La guerra non finisce, si trasforma. È il nostro nuovo habitat strategico: interconnesso, pervasivo, incalcolabile. Il diritto internazionale è un’illusione selettiva: valido per alcuni, sospeso per altri. L’impunità è diventata arma. Ogni testimonianza è azione militare, ogni parola è resistenza, ogni immagine è verità che brucia. Questa è una cartografia del collasso. Non è geopolitica. È un necrologio per la civiltà.
L’11 settembre ha aperto il varco.
Gaza ci mostra cosa c’è oltre: il buio della coscienza strategica, l’abisso del silenzio istituzionale, il crepuscolo del diritto. E se ancora pensiamo che sia possibile salvare l’idea di civiltà, allora serve un grido alto, intransigente, irreversibile. Perché senza verità, ogni strategia è solo sterminio travestito da sicurezza. Ignorare non è più un’opzione: è un errore strategico, etico e storico.
O si prende posizione, o si è già complici.