Sotto la soglia della dignità: la condanna dell’Alta Corte di Giustizia israeliana sulla denutrizione dei detenuti palestinesi

L’attentato avvenuto a Gerusalemme ha distolto l’attenzione dalle stragi a Gaza e dalla sentenza sulla condizione precaria dei detenuti palestinesi: informazione di serie A e B a confronto, sulla pelle di essere umani.

di Cristina Di Silvio

Una sentenza in favore dei palestinesi, ironia della sorte…

La sentenza emessa il 4 settembre 2025 dall’Alta Corte di Giustizia israeliana rappresenta un punto di svolta nel dibattito giuridico e politico sul trattamento dei prigionieri palestinesi.

In una pronuncia giuridicamente rigorosa e politicamente esplosiva, la Corte ha stabilito che lo Stato d’Israele non sta adempiendo ai suoi obblighi legali fondamentali nell’assicurare un’alimentazione adeguata ai detenuti palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione. I giudici hanno ordinato all’esecutivo e al Servizio Penitenziario Israeliano di adottare misure immediate per garantire condizioni alimentari compatibili con la sussistenza, denunciando implicitamente una prassi punitiva che, secondo la documentazione prodotta, ha condotto alla sistematica privazione del cibo come strumento repressivo.

La decisione scaturisce da una serie di petizioni presentate da organizzazioni per i diritti umani che hanno chiamato direttamente in causa il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, noto per la sua linea ideologica ultranazionalista, e il Servizio Penitenziario Israeliano, accusati di aver ridotto consapevolmente le razioni alimentari a un livello inferiore a quello minimo necessario alla sopravvivenza, configurando, di fatto, un trattamento disumano e degradante. Pur redatta con il consueto linguaggio tecnico-giuridico, la sentenza della Corte ha una forza argomentativa che travalica l’ambito procedurale e investe direttamente il cuore del sistema politico e istituzionale israeliano.

In un contesto segnato da crescenti tensioni interne e internazionali, la pronuncia denuncia non solo la violazione di norme specifiche, ma anche una più ampia deriva politica in cui le strutture dello Stato di diritto sembrano essere subordinate a logiche di repressione e intimidazione. Il fondamento normativo interno su cui poggia la sentenza è la “Basic Law: Human Dignity and Liberty” del 1992, parte integrante del corpus costituzionale israeliano, che sancisce il diritto inviolabile dell’individuo alla dignità e alla libertà personale.

La denutrizione deliberata, soprattutto se protratta e sistemica, costituisce una violazione diretta e grave di tali principi, come riconosciuto dalla Corte. A ciò si aggiunge l’articolo 11 del regolamento penitenziario israeliano, che obbliga le autorità a garantire ai detenuti un’alimentazione adeguata sotto il profilo quantitativo e qualitativo. I dati raccolti da ONG israeliane e internazionali, supportati da ispezioni indipendenti, dimostrano come tali obblighi siano stati ignorati o intenzionalmente elusi, in quello che appare sempre più come un dispositivo di controllo e sofferenza psicofisica. A livello di diritto internazionale umanitario, la condotta dello Stato si configura come ancora più problematica. Israele, pur contestando l’applicabilità piena della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 ai Territori Palestinesi Occupati, è parte contraente della Convenzione e vincolato alla sua osservanza secondo il principio consuetudinario degli obblighi erga omnes. L’articolo 27 impone alle potenze occupanti il dovere di trattare umanamente le persone sottoposte alla loro autorità, mentre l’articolo 89 specifica che i detenuti devono ricevere razioni alimentari adeguate per mantenere la salute e prevenire stati di denutrizione. Il Commentario ufficiale del Comitato Internazionale della Croce Rossa chiarisce senza ambiguità che la privazione alimentare dolosa costituisce una violazione sostanziale del diritto umanitario.

A queste norme si aggiunge la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, ratificata da Israele nel 1991. Secondo tale trattato, anche pratiche non apertamente violente ma suscettibili di infliggere sofferenze fisiche o mentali, per fini discriminatori, intimidatori o punitivi, rientrano nella definizione di tortura o trattamento disumano. La privazione intenzionale del cibo, come modalità di pressione e controllo, si inserisce pienamente in questo quadro giuridico.

detenuti palestinesi, alta corte contro Bibi

Le dichiarazioni dei politici israeliani non aiutano

Al centro della vicenda vi è la figura controversa di Itamar Ben Gvir, Ministro della Sicurezza nazionale, avvocato di formazione, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit e protagonista di una strategia politica basata sulla radicalizzazione dello scontro.

Le sue dichiarazioni pubbliche, tra cui quella secondo cui i detenuti palestinesi non dovrebbero “vivere in hotel a cinque stelle”, hanno trovato concreta attuazione in una serie di misure carcerarie drastiche, tra cui la riduzione del numero di visite, la limitazione dei beni essenziali e, ora accertato, il taglio delle razioni alimentari.

La Corte, pur evitando esplicite attribuzioni di responsabilità politiche, ha di fatto delegittimato una politica penitenziaria che si è servita della fame come mezzo punitivo. Le implicazioni della sentenza si articolano su più livelli. Sul piano interno, si registra una frattura tra il potere giudiziario e quello esecutivo, che potrebbe tradursi in una crisi istituzionale se il governo dovesse rifiutare di dare seguito alle disposizioni della Corte. Più in generale, la sentenza mina alla radice la narrativa securitaria costruita da parte dell’esecutivo, secondo cui ogni restrizione imposta ai detenuti palestinesi sarebbe giustificata dalla lotta al terrorismo. Ora è lo stesso vertice della magistratura a sancire che tali restrizioni hanno oltrepassato la soglia della legalità.

Sul piano giuridico si apre dunque un nuovo fronte: quello dei ricorsi individuali, delle class action da parte delle famiglie dei detenuti, delle richieste di risarcimento per violazioni gravi dei diritti fondamentali. A livello internazionale, le conseguenze sono potenzialmente destabilizzanti. Israele è già oggetto di indagini preliminari presso la Corte Penale Internazionale per presunti crimini commessi nei Territori Palestinesi Occupati.

Una pronuncia così netta da parte del massimo organo giurisdizionale israeliano rischia di rafforzare le argomentazioni dell’accusa, fornendo elementi di prova ulteriori sulla sistematicità delle violazioni. Inoltre, la vicenda potrebbe riaccendere le pressioni diplomatiche in sede ONU, con nuove risoluzioni da parte del Consiglio dei Diritti Umani e crescenti richieste di accountability da parte della società civile internazionale.

Sul versante palestinese, l’impatto è destinato a essere dirompente. La sentenza conferma, nero su bianco, ciò che da tempo le organizzazioni palestinesi denunciano: l’utilizzo della prigione non solo come luogo di detenzione, ma come campo d’azione per una guerra psicologica continua. In questo contesto, la privazione del cibo diventa un simbolo potente, capace di mobilitare l’opinione pubblica e di rafforzare la retorica delle fazioni più radicali. Si rischia così un effetto boomerang: ciò che nasce come strumento di controllo si trasforma in catalizzatore di resistenza. In ultima analisi, la sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana segna un confine netto tra Stato di diritto e stato di eccezione.

Quando un governo democratico normalizza la fame come leva coercitiva, non siamo più nell’ambito della politica penitenziaria, ma nel terreno scivoloso della repressione istituzionalizzata. La giustizia ha parlato, e lo ha fatto con un linguaggio che non lascia spazio all’ambiguità. Ora resta da vedere se lo Stato saprà ascoltarla, o se, ancora una volta, la sicurezza sarà usata come alibi per calpestare ciò che resta della dignità umana.