Fingere la pace per preparare la guerra: il vertice Putin-Zelensky e la geopolitica del cinismo

“La pace non si regge sulle buone intenzioni, ma sulla forza. Senza forza, la pace è solo una tregua tra due guerre.” Oriana Fallaci sintetizzava così l’essenza di ogni rapporto di potere e conflitto.

di Cristina Di Silvio

Guerra e pace, dalla letteratura alla cruda realtà

“La pace non si regge sulle buone intenzioni”, oggi questa massima sembra incarnare perfettamente la natura dell’imminente vertice tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, un incontro che appare più come un’operazione di facciata strategica, un’escamotage diplomatico mascherato da opportunità di risoluzione, piuttosto che un vero passo verso la cessazione delle ostilità e quindi la pace.

L’ordine internazionale contemporaneo si fonda su equilibri di forza, dove il diritto internazionale – compreso il principio di integrità territoriale sancito dall’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite e il mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) in base allo Statuto di Roma – viene spesso subordinato a calcoli di interesse nazionale e opportunità strategiche. 

Il bilaterale tra Putin e Zelensky, annunciato da Donald Trump e sostenuto da fonti NATO ed europee, si inserisce in un contesto geopolitico in cui la cosiddetta pace rischia di essere soltanto un nuovo capitolo della Guerra Fredda 2.0. La scelta di sedi “neutre” come Ginevra o Budapest non è casuale: la Svizzera, pur formalmente neutrale, garantisce immunità temporanea a soggetti con mandato di arresto internazionale purché in missione diplomatica, come previsto dal diritto internazionale consuetudinario e riconosciuto nelle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961). Tuttavia, questa deroga non implica la revoca del mandato, bensì una sospensione temporanea, un compromesso necessario affinché la diplomazia possa procedere senza forzature e senza esporre Mosca a sanzioni immediate.

L’Ungheria, invece, pur membro dell’Unione Europea e della NATO, mantiene una posizione politica più ambigua, con rapporti consolidati con Mosca, e la sua candidatura come sede del vertice confermerebbe il carattere soprattutto tattico e politico dell’incontro, più che una ferma applicazione del diritto. 

Al centro del tavolo vi sono le aree occupate dalla Russia dal 2014, intensificatesi dopo il 2022, tra cui la Crimea, riconosciuta illegalmente annessa in violazione dell’articolo 2 della Carta ONU e della sovranità ucraina, e le regioni di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson, teatro di violazioni del diritto internazionale umanitario, inclusi i principi fondamentali e le Convenzioni di Ginevra.

Secondo indiscrezioni da Washington, Trump avrebbe negoziato con Putin la possibilità di cessioni territoriali condizionate, accompagnate da garanzie di sicurezza per Kiev. Queste garanzie si ispirerebbero all’Articolo 5 del Trattato NATO, che sancisce la difesa collettiva in caso di aggressione armata contro un membro dell’Alleanza, ma senza prevedere una reale adesione formale dell’Ucraina. Sebbene mirata a rassicurare Kiev, la proposta solleva dubbi strategici e giuridici: chi sarebbe effettivamente responsabile di attivare tali garanzie?

In un sistema militare fondato su trattati multilaterali e comandi integrati come quello NATO, l’attivazione della clausola difensiva richiede consenso unanime e non è mai automatica; se non formalizzata in un accordo vincolante, rischierebbe di ridursi a una promessa politica suscettibile di revoca al mutare delle amministrazioni negli Stati Uniti o in Europa. In pratica, si tratterebbe di un meccanismo di deterrenza “ambiguo”, simile a quelli definiti dalla dottrina della sicurezza come “deterrenza flessibile”, il cui valore si fonda più sulla percezione che sulla certezza. 

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Per l’Ucraina la situazione è ulteriormente complicata dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 17, che definisce inviolabile l’integrità territoriale, e dalla necessità, in caso di modifiche, di ottenere una maggioranza parlamentare qualificata ai due terzi e un referendum popolare, in linea con le procedure previste anche dal diritto internazionale per mutamenti territoriali con implicazioni sovrane. Tale procedura, in un contesto di guerra e crisi interna, appare quasi irrealizzabile senza provocare profonde fratture sociali e istituzionali. Sul piano militare, l’Ucraina continua a beneficiare di forniture e supporto NATO, inclusi sistemi d’arma avanzati come missili anticarro Javelin e sistemi di difesa aerea Stinger, il cui impiego rientra nel paradigma della difesa territoriale integrata e nel rispetto delle norme sulla guerra legittima secondo la Convenzione di Ginevra III e i principi di proporzionalità e distinzione tra combattenti e civili. Tuttavia, l’assenza di adesione formale limita le possibilità di intervento diretto degli Stati membri e conferma l’incertezza della posizione di Kiev nel sistema di sicurezza euro-atlantico. 

Nel frattempo, attori chiave come la Cina osservano in silenzio, valutando il possibile congelamento del conflitto come un’opportunità per allentare la pressione americana sull’Indo-Pacifico, teatro della sfida strategica globale. Pechino mira a un ordine multipolare che riduca l’egemonia statunitense e consolidi la propria influenza economica e militare, utilizzando anche strumenti di guerra ibrida e cyberwarfare, ormai parte integrante del conflitto asimmetrico moderno e delle dottrine di guerra ibrida delineate nei manuali militari contemporanei, come la Russian Military Doctrine e la Chinese Science of Military Strategy.

Per Israele, il rafforzamento della Russia in Europa orientale rappresenta un rischio concreto, poiché può rafforzare l’alleanza con l’Iran e limitare la cooperazione di intelligence con l’Ucraina, fondamentali per la sicurezza nazionale, soprattutto in un contesto di crescenti minacce regionali. Il vertice rischia dunque di trasformarsi in un compromesso artificiale, una “pace fredda” che congelerebbe il conflitto senza risolvere le questioni di fondo: l’identità politica e territoriale dell’Ucraina, il rispetto del diritto internazionale e il ruolo della Russia nell’architettura di sicurezza europea. Un simile compromesso potrebbe servire agli interessi degli Stati Uniti, che cercano di chiudere rapidamente un dossier che sottrae risorse e attenzione al contesto elettorale interno, e a Mosca, che consoliderebbe con il riconoscimento tacito delle proprie conquiste territoriali una posizione di forza.

L’Europa, invece, rischia di rimanere marginale, esposta a divisioni interne e a una crisi di legittimità strategica. L’Unione Europea si trova così di fronte a una scelta cruciale: rimanere spettatrice e subalterna, lasciando che le decisioni più importanti vengano prese da Washington, Mosca e Kiev, oppure assumere un ruolo attivo e centrale nel negoziato, con una presenza formale che garantisca trasparenza, rispetto del diritto internazionale e tutela degli interessi continentali. Ciò richiederebbe un salto di qualità nella cooperazione militare europea, con il potenziamento delle capacità di intelligence integrata e il consolidamento della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), nonché un ruolo più incisivo nelle istituzioni multilaterali come OSCE, NATO (per quanto possibile) e Nazioni Unite, applicando coerentemente i principi sanciti dalla Carta dell’ONU e dagli strumenti giuridici internazionali.

Le prossime settimane saranno decisive non solo per Ucraina e Russia, ma per l’intera architettura di sicurezza globale. Ogni parola pronunciata, ogni formula diplomatica adottata avrà ripercussioni strategiche di vasta portata. La pace, se davvero dovesse giungere, dovrebbe essere sostenibile, verificabile e soprattutto fondata sul rispetto del diritto internazionale. In mancanza di ciò non sarà che una tregua armata, il preludio a un nuovo conflitto. Chi ignora questa verità, come ammoniva Fallaci, è già perduto senza saperlo.