di Cristina Di Silvio
Sessantadue anni fa, il 5 agosto 1963, Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito sottoscrivevano a Mosca il Trattato per la messa al bando parziale degli esperimenti con il nucleare Oggi Trump e Medvedev “giocano” online minacciando uso nucleare e ordinando lo stato di approntamento di sommergibili.
Nucleare, dall’argine politico alla minaccia
Il trattato vietava i test nucleari nell’atmosfera, nello spazio e negli oceani, consentendoli solo nel sottosuolo. Il messaggio era chiaro: l’umanità non poteva più permettersi l’esibizione della propria autodistruzione.
La memoria della Crisi di Cuba era ancora fresca e la consapevolezza strategica che la deterrenza era arrivata a un punto critico aveva imposto una riflessione comune, seppur guidata da interessi divergenti.
Il trattato fu il primo strumento multilaterale con valenza militare-strategica a porre un freno – seppur parziale – alla corsa agli armamenti nucleari.
Oggi, nel 2025, quell’argine appare lontano, quasi archeologico, mentre il contesto strategico globale evolve verso un nuovo equilibrio instabile, più pericoloso perché non codificato. La deterrenza non è più gestita da un sistema binario tra superpotenze, ma da una costellazione di attori statali e parastatali, con dottrine opache, arsenali in espansione e nuovi domini tecnologici che moltiplicano i rischi di errore, calcolo sbagliato o escalation accidentale.
L’epoca attuale non è segnata da un’unica minaccia nucleare, ma da molteplici variabili strategiche convergenti. Nel 1963 il problema era la visibilità del potere distruttivo: il mondo doveva smettere di veder brillare le esplosioni nucleari nel cielo.
Nel 2025 il problema è l’invisibilità delle soglie: oggi il rischio è che non ci sia alcun segnale, nessun boato, nessun countdown. I test, se avvengono, sono simulati; le capacità, verificate tramite supercomputer e modellazione computazionale avanzata; le piattaforme di lancio sono mobili, silenziate, integrate in ecosistemi digitali automatizzati.
L’errore umano ha lasciato spazio al rischio di errore sistemico, algoritmico, rapidissimo. Nel 1963 la minaccia era pubblica, tangibile, misurabile in megatoni. Oggi è frammentata, distribuita, potenziata dall’intelligenza artificiale, resa opaca dalla proliferazione orizzontale e dalla mancanza di trasparenza.
Gli Stati Uniti non escludono la ripresa di test sotterranei come messaggio strategico alla Cina; Mosca ha ritirato la ratifica del CTBT (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty); Pechino sta silenziosamente costruendo centinaia di nuovi silos per testate strategiche e ipersoniche; India e Pakistan continuano lo sviluppo di sistemi dual use a bassa soglia di impiego; la Corea del Nord prosegue la miniaturizzazione delle sue testate per vettori a lungo raggio; Israele resta formalmente fuori dal NPT mantenendo una postura di ambiguità funzionale alla propria deterrenza regionale.


In parallelo, l’Iran continua ad avanzare nel ciclo del combustibile nucleare, e nessun framework multilaterale efficace è in grado oggi di ricomporre lo scenario. L’equilibrio nucleare globale si è così spostato da un paradigma di contenimento controllato a uno di proliferazione contenuta solo per inerzia.
Gli accordi di limitazione bilaterale sono in via di dissoluzione – basti pensare all’INF, all’ABM o al New START – e la Conferenza di Revisione del TNP continua a produrre più stalli che risultati. Le misure di trasparenza reciproca, confidence-building measures e ispezioni multilaterali sono deboli, o assenti. In un mondo multipolare con minacce asimmetriche, la dottrina MAD non è più universalmente applicabile: oggi la logica della deterrenza si ibrida con guerre ibride, conflitti regionali convenzionali e operazioni sottosoglia.
La possibilità di un impiego nucleare limitato, tattico, discriminato, non è più esclusa dai war game strategici delle principali potenze. Nel 1963 la paura aveva imposto un compromesso.
Oggi, la complessità tecnologica sembra generare assuefazione. Eppure, il rischio è persino più alto. L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi C4ISR, l’automazione delle catene di comando, l’affidamento a sensori autonomi per il rilevamento precoce, la possibilità di interferenze cyber nei sistemi di controllo o di spoofing dei segnali radar pongono una domanda fondamentale: la decisione nucleare è ancora pienamente sotto controllo politico? O stiamo avvicinandoci a una soglia in cui la velocità dell’allarme supera la soglia della riflessione umana?
Il Trattato del 1963 rappresentò un momento di razionalità strategica: un limite condiviso, imperfetto ma chiaro, imposto alle capacità tecniche per ridurre il rischio globale. Oggi l’urgenza non è più quella di vietare le esplosioni atmosferiche – superate dalle capacità sotterranee e digitali – ma quella di ripensare una nuova architettura di prevenzione strutturale del rischio nucleare, fondata su trasparenza tecnica, verificabilità multilaterale e riduzione degli automatismi decisionali.
Non sarà un trattato a fermare una guerra nucleare, ma la costruzione di sistemi internazionali resilienti che riconoscano la deterrenza per ciò che è: un equilibrio instabile, utile finché tutti gli attori condividono le stesse regole e la stessa percezione del rischio. Quando le regole si frantumano e la percezione si differenzia, la deterrenza diventa un’ipotesi fragile.
Nel 2025, ciò che resta del 5 agosto 1963 non è la memoria di un trattato tecnico, ma la consapevolezza che ogni generazione deve decidere se fermarsi prima o dopo il punto di non ritorno. Allora lo fecero. Oggi, siamo ancora in tempo?