Franco Di Mare: “Ho un tumore, l’ho preso come inviato di guerra”

Un giornalista straordinario, un volto entrato nelle case degli italiani durante la guerra nei Balcani o le crisi in Medio Oriente. Tante rubriche, tanti approfondimenti e un’eleganza innata. Napoletano verace, Franco di Mare racconta quest’altra fase della sua vita, un estratto toccante che ci apre alla riflessione, un editoriale da leggere più volte.

“Mi sono preso il mesotelioma, un tumore molto cattivo”. Ad affermarlo a ‘Che tempo che fa’ è il giornalista Franco Di Mare, spiegando che la malattia è “legata alla presenza di amianto nell’aria e si prende tramite la respirazione di parcelle di amianto, senza rendersene conto. Questo tubicino che mi corre sul viso è un tubicino legato a un respiratore automatico e mi permette di respirare in modo forzato, ma mi permette di essere qui a raccontare, a parlare con te”

spiega, condividendo il suo dramma con gli spettatori di Fabio Fazio.

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“Ho avuto una vita bellissima. Le memorie che ho sono memorie piene di vita. Non voglio fossilizzarmi attorno all’idea di morte. Mi voglio legare all’idea che c’è la vita. Quello che mi dispiace tanto è scoprirlo solo adesso. Non è ancora tardi”

sottolinea Franco di Mare.

Franco Di Mare “ho un tumore, l’ho preso come inviato di guerra”

Estratto dall’articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera

«Ero seduto davanti alla sua scrivania. “Houston, abbiamo un problema”, mi disse il professore. “Francesco, non so come dirtelo. In questo momento vorrei tanto essere l’animatore di un villaggio e non un dottore. Hai un mesotelioma. Aggressivo”. “Quanto?” “Alto grado”».

Ha capito subito.
«Sapevo bene cos’era. Mi sono piegato in avanti, muto, con le mani sulla testa. E il prof si è incazzato. “Ehi! E che è adesso? Si reagisce, si combatte, vedrai che ce la facciamo”».

Franco Di Mare, 68 anni, ex inviato di guerra e conduttore tv, deve dosare il respiro, quando parla. «Ho un tumore che non lascia scampo. Mi resta poco da vivere, quanto non lo so. Però non mollo. Confido nella ricerca». Accanto a lui c’è una grossa bombola con le rotelle, che lo segue ovunque vada. Nel naso ha un tubicino trasparente.

«E’ un diffusore di ossigeno, è lui ora il mio polmone. Prima mi aiutava soltanto di notte. Da una decina di giorni invece non posso più staccarmi. Sono legato come gli astronauti. A guardarlo bene assomiglia a R2-D2, il robottino di Guerre Stellari». Il cagnetto Lili gli saltella intorno.
Lo chiama per nome, il suo nemico.

«Quando ero piccolo, in famiglia si abbassava la voce: “Quella persona ha un brutto male”. Come se, nominandolo, il mostro ti entrasse in casa. Io invece sono diretto. Ho un cancro. Oggi ci si cura e spesso si guarisce. Da questo no. Non se ne va, al massimo lo puoi rallentare, ma resta lì ed è uno dei più cattivi».

«Perché a me?». Lei ha trovato la risposta.
«Perché sono stato a lungo nei Balcani, tra proiettili all’uranio impoverito, iper-veloci, iper-distruttivi, capaci di buttare giù un edificio. Ogni esplosione liberava nell’aria infinite particelle di amianto. Ne bastava una. Seimila volte più leggera di un capello. Magari l’ho incontrata proprio a Sarajevo, nel luglio del 1992, la mia prima missione. O all’ultima, nel 2000, chissà. Non potevo saperlo, ma avevo respirato la morte. Il periodo di incubazione può durare anche 30 anni. Eccoci».
Ci ha scritto un libro che esce domani: «Le parole per dirlo» (Sem, Feltrinelli).

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